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La testimonianza "fa prova sino a prova contraria”: la Cassazione chiarisce le regole


Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta ad un uomo per il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in luogo dell’originaria contestazione di estorsione, nei confronti del proprio avvocato che avrebbe costretto a versargli una somma di denaro, dovuta all’imputato a titolo di risarcimento in una causa civile in cui il legale lo aveva assistito e di cui quest’ultimo si sarebbe impossessato, la Corte di Cassazione penale, Sez. VI, con la sentenza 17 gennaio 2023, n. 1599 – nell’accogliere la tesi difensiva secondo cui il giudizio di responsabilità era stato erroneamente fondato sulle dichiarazioni del legale, pur essendovi fondati dubbi sulla sua attendibilità -, ha individuato una serie di principi che governano l’affermazione secondo cui la testimonianza "fa prova sino a prova contraria" (principi di affidabilità, normalità e responsabilità), essendo quindi necessario che la deposizione sia resa da persona realmente terza rispetto alle parti, della quale non possa affermarsi alcun apprezzabile interesse a mentire e che sia stata resa edotta delle responsabilità conseguenti all'ipotesi di un eventuale mendacio. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conformi Cass. pen. sez. Unite, 24/10/2012, n. 41461 Difformi Non si rinvengono precedenti in terminiPrima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, deve essere ricordato che l’ art. 192, c.p.p., sotto la rubrica «Valutazione della prova», stabilisce che “1. Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. 2. L'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti. 3. Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'articolo 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità. 4. La disposizione del comma 3 si applica anche alle dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall' articolo 371 comma 2 lettera b)”. Per quanto qui di interesse, la persona offesa dal reato, insieme alla parte civile, è il soggetto processuale che istituzionalmente potrebbe trarre giovamento da una sentenza di condanna trovando in questa la soddisfazione di interessi e diritti in linea di principio legittimi e tutelabili. D’altro canto, non è ragionevole, solo per questo, negare valore di prova alle dichiarazioni dei nominati soggetti. Una parte della giurisprudenza concede piena fiducia alle dichiarazioni delle parti private, anche se non indifferenti all'esito del giudizio. Unico presupposto è quello di una generica attendibilità del testimone-persona offesa mediante gli stessi parametri di valutazione degli indizi della gravità, precisione e concordanza (Cass. pen. sez. VI, 04/11/2004, Z., in Mass. Uff., 230899; Cass. pen. sez., VI, 03/06/2004, P., in GI, 2005, 1709; Cass. pen. sez. II, 07/11/2000, F., in RP, 2001, 254; Cass. pen. sez. III, 16/06/1999, M., in CP, 2000, 2382; Cass. pen. sez. III, 26/11/1997, C., in Mass. Uff., 209404; Cass. pen. sez. III, 06/12/1995, S., in CP, 1997, 1111, 706; Cass. pen. sez. III, 05/03/1993, Russo, in CP, 1994, 1919; Cass. pen. sez. V, 03/11/1992, L., in Mass. Uff., 193487, 7, 30; Cass. pen. sez. I, 28/02/1992, S., in ANPP, 1992, 619; Cass. pen. sez. I, 11/04/1991, B., in ANPP, 1992, 622; App. Cagliari 26/05/1995, I., in FI, 1996, II, 650; App. Cagliari 06/05/1995, P., in FI, 1996, II, 650). Altre pronunce escludono la necessità di riscontri esterni esaltando la semplice attendibilità del testimone-interessato (Cass. pen. sez. I, 4/11/2004, in Mass. Uff., 230590; Cass. pen. sez. III, 24.11.1997, in Mass. Uff., 209347). Altre ancora sottolineano la necessità che la testimonianza della parte offesa sia intrinsecamente attendibile, ossia sottoposta ad un attento controllo di credibilità soggettiva ed oggettiva, richiedendo riscontri esterni solamente nel caso in cui sussistano situazioni che inducano a dubitare della attendibilità medesima (Cass. pen. sez. III, 12/05/2004, P., in Mass. Uff., 229430; Cass. pen. sez. III, 27/03/2003, A., in Mass. Uff., 225232; Cass. pen. sez. V, 17/12/2002, I., in Gdir, 2003, Dossier 5, 56; Cass. pen. sez. V, 04/12/2002, G., in Gdir, 2003, 16, 91; Cass. pen. sez. III, 28/11/2002, H., in Gdir, 2003, 19, 104; Cass. pen. sez. IV, 31/01/2002, U., in Gdir, 2002, 23, 57; Cass. pen. sez. III, 18/10/2001, P., in ANPP, 2002, 482; Cass. pen. sez. V, 01/10/2001, Z., in Gdir, 2002, 4, 70; Cass. pen. sez. V, 27/09/2001, L., in Gdir, 2002, 24, 77; Cass. pen. sez. III, 14/02/2001, C., in Gdir, 2002, 15, 93; Cass. pen. sez. I, 08/03/2000, in Mass. Uff., 216180; Cass. pen. sez. V, 27/4/1999, G., in CP, 2000, 2383; Cass. pen. sez. II, 11/06/1998, in CP, 1999, 3206; Cass. pen. sez. VI, 24/02/1997, Orsini, in CP, 1998, 2424). Il testimone - persona offesa viene dunque equiparato, con riferimento alla valutazione delle sue dichiarazioni a tutti gli altri testimoni Cass. pen. sez. III, 26/8/1999, A., in Mass. Uff., 215247, ben potendo essere assunto come unica fonte di prova ove sia sottoposto ad un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva (Cass. pen. sez. III, 23/11/2004, Marras, in Gdir, 2005, 12, 93; Cass. pen. sez. IV, 13/11/2003, V., in CP, 2005, 1665; Cass. pen. sez. III, 13/11/2003, Pacca, in CP, 2005, 557). Le dichiarazioni medesime, per essere utilizzate dal giudice, devono risultare credibili, oltre ad avere per oggetto fatti di diretta cognizione e specificamente indicati (Cass. pen. sez. I, 17/12/1998, K., in Mass. Uff., 212459; Cass. pen. sez. VI 24/2/1997, O., in CP, 1998, 2424; Cass. pen. sez. VI, 13/1/1994, Patanè, in CP, 1995, 1593). Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite, affermando il principio secondo cui le regole dettate dall' art. 192, comma 3, c.p.p. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (In motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi: Cass. pen. sez. Unite, n. 41461 del 24/10/2012, CED Cass. 253214 – 01). Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte di appello aveva sostanzialmente confermato la sentenza con cui un uomo era stato condannato per il reato di cui all'art. 393 c.p., così riqualificata l'originaria imputazione di estorsione. Secondo la ricostruzione dei Giudici di merito, l'imputato, nell'ambito di un rapporto professionale con un avvocato che lo aveva assistito in una controversia civile all'esito della quale aveva ricevuto un indennizzo in denaro, ritenendo che il difensore si fosse ingiustamente impossessato del denaro, si recò presso lo studio del suo avvocato e nell'occasione, attraverso comportamenti minacciosi, si sarebbe fatto giustizia da sé, costringendolo a consegnarli la somma di circa 700 euro. Ricorrendo in Cassazione, la difesa si doleva del giudizio di responsabilità, soprattutto in ragione della deposizione di un teste che, con riguardo a ciò che accadde nello studio dell’avvocato, costituitosi parte civile, aveva riferito di aver udito l'imputato minacciare l'avvocato dicendogli che avrebbe bruciato lo studio se l’avvocato non gli avesse dato una determinata somma di denaro. Sul punto, sosteneva la difesa, la Corte d’appello non aveva correttamente valutato le dichiarazioni della moglie dell’imputato, che aveva escluso, al momento della commissione del fatto, la presenza del teste nella stanza dell'avvocato; neppure un’altra teste, collaboratrice di studio dell'avvocato, aveva confermato la presenza del teste presso lo studio dell'avvocato; né, ancora, erano state adeguatamente valutate le dichiarazioni dell’imputato. La Cassazione, nell’accogliere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui sopra. In particolare, la S.C. si è soffermata a illustrare i principi che governano la valutazione della prova testimoniale, soprattutto quanto ad essere in contestazione sono le dichiarazioni della persona offesa. Ricordano sul punto i Supremi Giudici che sia il legislatore del 1930, sia il legislatore repubblicano hanno dedicato scarsissima attenzione alla definizione del valore processuale delle singole fonti di prova, rifiutando il sistema della prova legale a favore di un sistema fondato sul c.d. libero convincimento del giudice, principio che ha trovato esplicita formulazione negli artt. 192, comma 1, 189 e 193 c.p.p. Ogniqualvolta il legislatore ha posto dei limiti al principio del libero convincimento del giudice, ciò ha fatto non tanto imponendogli un risultato conoscitivo quanto, piuttosto, proibendogliene uno, considerato potenzialmente errato. Si può quindi affermare, precisa la S.C., che il legislatore in talune ipotesi ha autorizzato il Giudice a ritenere provato un determinato fatto solo perché rappresentatogli da un unico mezzo di prova, e purché non sussistano ragioni che consiglino di svalutarne il valore. Tale è appunto l'ipotesi della testimonianza che, come si afferma, "fa prova sino a prova contraria ". Il fondamento di tale assetto è rinvenibile non solo nella riconosciuta generale capacità a testimoniare, ma soprattutto in un complesso di regole di esperienze ritenute astrattamente valide ed affidabili. La prima di tali regole è quella della normale terzietà del teste; la seconda è invece, desumibile dal riconoscimento anche alla persona offesa della possibilità di testimoniare dato che, evidentemente, essa non viene considerata come portatrice di un interesse di per sé inquinante. Ciò è possibile in forza di un ulteriore presunzione, e cioè che, di solito, chi comunica a terzi un fatto, dice la verità (principio di affidabilità, sul quale si fonda la normale vita di relazione) e che mente solo se a tanto abbia sufficiente interesse (principio di normalità), e ciò specialmente se dalla veridicità del dichiarato possano scaturire conseguenze pregiudizievoli per sé o per altri (principio di responsabilità). Tali considerazioni spiegano allora perché la presunzione di attendibilità della testimonianza sia solamente generica e "Juris tantum", in quanto suscettibile di prova contraria, sottoposta al prudente apprezzamento del giudice all'esito della verifica che questi avrà effettuato della stessa. Verifica che, non necessitando di elementi di riscontro esterni, potrà essere limitata all'esame dell'attendibilità intrinseca della deposizione. Necessario e sufficiente sarà perciò che, in omaggio ai su riferiti principi di affidabilità, normalità e responsabilità, la deposizione sia resa da persona realmente terza rispetto alle parti, della quale non possa affermarsi alcun apprezzabile interesse a mentire e che sia stata resa edotta delle responsabilità conseguenti all'ipotesi di un eventuale mendacio. In omaggio ai criteri c.d. della linearità e della completezza, ciò che deve essere verificato è che la deposizione sia internamente logica e coerente, priva di contraddizioni e che non sia in inspiegabile contrasto con altre deposizioni testimoniali parimenti attendibili o con elementi "aliunde" accertati con i caratteri della certezza. La testimonianza deve essere, inoltre, dotata di adeguata capacità dimostrativa del fatto da provare e questa sarà tanto maggiore quanto meglio il teste sia stato in grado di rappresentare il fatto e quanto più l'oggetto della deposizione sia "significativo" di ciò che con la testimonianza si intende provare. Infine, giova sicuramente all'attendibilità della testimonianza la circostanza che il fatto sia analiticamente esposto, attesa la regola di esperienza che insegna che la menzogna è genericamente lacunosa ed incompleta, per l'impossibilità di attribuire ad un fatto inventato la ricchezza di particolari che sono propri, invece, degli accadimenti reali. Se così è, allora appare altresì chiaro che la garanzia della legittimità della verifica appena descritta è costituita dal contraddittorio delle parti nell'assunzione della prova: quanto più è pieno il contraddittorio, tanto più completa ed affidabile potrà ritenersi la suddetta verifica. Così sintetizzato il “modus operandi” che deve ispirare il giudice nella valutazione della testimonianza, la Corte di legittimità perviene alla conclusione che la Corte di appello non aveva rispettato i predetti principi, suggerendo quindi la valutazione della necessità di un approfondimento istruttorio, e demandando alla stessa l’accertamento compiuto dei fatti, e l’obbligo di valutare con rigore le prove e di verificare se ed in che termini sarà possibile confermare il giudizio di responsabilità penale nei riguardi dell'imputato. Da qui, pertanto, l’accoglimento del ricorso. Riferimenti normativi: Art. 192 c.p.p.

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