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Il Governo corre ai ripari sul “codice rosso”: nuovo d.d.l. sulla violenza domestica

A distanza di cinque mesi dall’approvazione della riforma del processo penale, il Governo ha presentato il nuovo pacchetto di norme finalizzate alla prevenzione e repressione della violenza di genere. L’intervento dell’esecutivo è volto sia a porre rimedio alle incongruenze già evidenziate all’indomani della riforma Cartabia, sia ad introdurre alcune correzioni e modifiche normative che innovano sotto più profili la tutela delle vittime vulnerabili (Ddl A.S. 2530). Premessa Il 16 febbraio 2022 è stato finalmente presentato al Senato il nuovo disegno di legge in materia di prevenzione e contrasto del fenomeno della violenza domestica e nei confronti delle donne (A.S. 2530), la cui adozione era stata annunciata già nel Consiglio dei ministri del 3 dicembre 2021 ma che, finora, non era ancora approdato in Parlamento. Si tratta di un intervento molto atteso, la cui occasione è stata determinata dalla necessità di correggere le norme frettolosamente approvate con la riforma del processo penale (L. 27 settembre 2021, n. 134), foriere di nefaste e paradossali conseguenze sul piano della tutela delle vittime dei reati da c.d. codice rosso. Come si ricorderà, infatti, all’indomani del varo della riforma Cartabia, dalle pagine di questa rivista si era evidenziato un grave difetto di coordinamento normativotra l’introduzione dell’obbligatorietà dell’arresto in flagranza per il reato di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento alla p.o. di cui all’art. 387-bis c.p. (art. 380, comma 2, lett. l-ter c.p.p.) e la mancata modifica delle norme che disciplinano le condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari personali – che viceversa non consentono l’adozione di alcuna misura cautelare per tale reato, in ragione dei suoi limiti edittali, inferiori ai requisiti di pena necessari per l’applicabilità delle misure coercitive (art. 280 c.p.p.) – obbligando così l’autorità giudiziaria all’immediata liberazione degli arrestati, senza poter procedere all’applicazione di alcuna misura coercitiva nei loro confronti (artt. 121 disp. att. e 391, comma 6, c.p.p.). La gravità della situazione ingenerata da tale difetto di coordinamento rendeva peraltro lecito attendersi un rapidissimo intervento correttivo, che trovasse spazio attraverso la decretazione d’urgenza, sì da porre rimedio il più velocemente possibile a quello che era stato definito un vero e proprio “allarme rosso”. Il Governo ha ritenuto invece più opportuno (o più prudente) procedere per le vie ordinarie, attraverso la presentazione di un disegno di legge di più ampio respiro, dove – come vedremo – hanno trovato spazio contenuti ben ulteriori rispetto ai correttivi attesi. Una scelta che, nel privilegiare la multidisciplinarietà dell’intervento a discapito della sua rapidità, comporterà l’inevitabile passaggio di altro tempo, oltre a quello già trascorso dall’approvazione della riforma Cartabia, prima che le modifiche proposte possano divenire operative, con buona pace delle vittime di tali gravi reati. “Adelante, Pedro, si puedes, presto, con juicio”. Il contenuto del nuovo d.d.l. Il disegno di legge A.S. 2530, come si diceva e come si desume già dal suo titolo – recante «Disposizioni per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica» – contiene un articolato sistema di previsioni volto ad arricchire e rafforzare l’impianto delle misure finalizzate a prevenire e reprimere la violenza di genere, «con una particolare attenzione» – si legge nella sua relazione illustrativa – «ai casi in cui tale fenomeno si manifesta in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza, nella considerazione della particolare vulnerabilità delle vittime, nonché degli specifici rischi di reiterazione e multilesività». Si tratta di un fenomeno tristemente noto, rispetto al quale – come riporta la relazione di analisi di impatto della regolamentazione (AIR) allegata allo schema di d.d.l. – «si è registrato nel nostro Paese un incremento e un’ampia diffusione anche a seguito delle misure di contenimento adottate per fronteggiare l’epidemia in atto da Covid-19», con cifre da capogiro negli ultimi 4 anni: circa 40.000 casi di maltrattamento l’anno, oltre 20.000 casi di stalking, quasi 8.000 casi di violenza sessuale, circa 3.000 violazioni del divieto di avvicinamento alla p.o., oltre 1.000 casi di revenge porn, oltre 2.000 ammonimenti questorili, fino alla triste soglia di oltre 70 omicidi l’anno commessi in ambito familiare/affettivo, fatti che – oltre alla loro gravità – hanno determinato una spesa a carico del Fondo per le vittime dei reati violenti pari a oltre 3,5 milioni di euro nel 2020 ed a oltre 4,5 milioni di euro nel 2021. Per fronteggiare tali esigenze, il d.d.l. interviene con numerose modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione e ad alcune leggi speciali, attraverso una serie di previsioni che – come detto – travalicano il ristretto campo delle modifiche urgenti sopra indicate per estendersi in modo trasversale attraverso tutte le attività di prevenzione e contrasto ai fenomeni di violenza di genere: dai primi momenti in cui la p.o. abbia contatti con le forze dell’ordine, alle misure di prevenzione e di pubblica sicurezza a tutela delle vittime, per giungere poi alle misure precautelari e cautelari, fino al giudizio e all’esecuzione della pena. Di seguito si passeranno in rassegna i contenuti dello schema di d.d.l., con l’avvertimento che l’esposizione non seguirà l’ordine degli articoli da cui il testo è composto ma ne raggrupperà i contenuti per aree omogenee di intervento. Ammonimento del Questore, aggravanti e procedibilità d’ufficio L’art. 1 d.d.l. interviene innanzitutto sugli istituti dell’ammonimento del Questore previsti, rispettivamente, dal D.L. 14 agosto 2013, n. 93 (per le condotte di violenza domestica) e dal D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 (per gli atti persecutori). In particolare, esso estende l’ammonimento questorile per «condotte di violenza domestica» disciplinato dall’art. 3 D.L. 14 agosto 2013, n. 93 – attualmente previsto per i soli reati di percosse e lesioni (artt. 581 e 582 c.p.) – ad ulteriori condotte che – come recita la relazione illustrativa al d.d.l. – «possono assumere valenza sintomatica rispetto a situazioni di pericolo per l’integrità psico-fisica delle persone, nel contesto delle relazioni familiari ed affettive», in quanto prodromiche rispetto a forme di violenza più gravi, rappresentando un “campanello d’allarme” contro il rischio di una loro escalation. Nello specifico, il provvedimento in esame intende ampliare il novero dei reati-spia per i quali sarà comminabile la misura dell’ammonimento del Questore, ricomprendendovi anche i reati, consumati o tentati, di violenza privata (art. 610 c.p.), minaccia aggravata (art. 612 comma 2 c.p.), violazione di domicilio (art. 614 c.p.) e danneggiamento (art. 635 c.p.), nonché estendere tale istituto a tutti i casi in cui, a prescindere dal titolo di reato, gli atti di violenza domestica siano comunque «commessi in presenza in minorenni». Il citato art. 3 D.L. 14 agosto 2013, n. 93 fornisce peraltro una definizione piuttosto ampia di cosa debba considerarsi «violenza domestica», intendendo per tale «uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima». L’art. 1 d.d.l. mira inoltre – come rileva la relazione illustrativa – «ad armonizzare la disciplina dell’ammonimento per violenza domestica con quella dell’ammonimento per atti persecutori» prevista dal D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, attraverso alcuni interventi che incidono su aggravanti e procedibilità d’ufficio dei fatti dagli stessi previsti se commessi da soggetto già ammonito. Esso infatti – specularmente a quanto prevede l’art. 8, comma 3, D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 in relazione al reato di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p., se commesso da soggetto già ammonito – introduce una nuova circostanza aggravante ad effetto comune (con aumento quindi fino ad 1/3) per i reati di cui agli artt. 581, 582, 610, art. 612 comma 2, 614 e 635 c.p. se commessi «nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito». E – sempre analogamente a quanto già previsto dall’art. 8 D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 per lo stalking – lo stesso d.d.l. introduce la procedibilità d’ufficio per i reati, di norma invece procedibili a querela, di cui agli artt. 581, 582 comma 2, art. 612 comma 2, prima ipotesi, 614 commi 1 e 2c.p., qualora il fatto sia commesso «nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito». L’art. 1 d.d.l. estende inoltre la misura dell’ammonimento questorile previsto per il reato di atti persecutori di cui all’art. 8 D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 ai reati di violenza sessuale procedibili a querela di cui all’art. 609-bis c.p., prevedendo anche per questi ultimi lo stesso aggravamento di pena e la procedibilità d’ufficio se commessi da soggetto che sia stato già ammonito. In sintesi, quindi, con l’approvazione del d.d.l. si omogenizzano le due tipologie di ammonimento, prevedendo per entrambe un aggravamento di pena e la procedibilità d’ufficio dei fatti commessi da soggetto già ammonito, sia per stalking, che per violenza sessuale, percosse, lesioni e violazione di domicilio (oltre violenza privata e danneggiamento, in realtà già procedibili d’ufficio). Rafforzamento degli obblighi informativi in favore delle persone offese Sempre sotto il profilo degli strumenti di prevenzione dei fenomeni di violenza domestica, l’art. 1 d.d.l. amplia anche il novero dei reati a cui si applicano gli obblighi informativi previsti dall’art. 11D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, per i quali le forze dell’ordine, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche che ricevono dalle vittime la notizia di aver subito delitti a base violenta sono tenuti a dare alle stesse tutte le informazioni sulle misure a loro tutela. In particolare, accanto ai reati – già previsti dalle norme in vigore – di cui agli artt. 581, 582, 572, 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis c.p., il d.d.l. aggiunge i reati di cui agli artt. 583-quinquies, 610, art. 612 comma 2, 614 e 635 c.p., nonché il reato di tentato omicidio di cui agli artt. 56 e 575 c.p., nel caso in cui siano commessi nell’ambito di episodi di violenza domestica, al novero delle ipotesi in cui scatta l’obbligo per le forze dell’ordine, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche di fornire informazioni alla vittima di tali reati sui centri antiviolenza presenti sul territorio e, in particolare, nella zona di residenza della stessa, nonché di metterla direttamente in contatto con tali strutture, ove essa ne faccia espressa richiesta. Tutela delle vittime di violenza domestica mediante misure di vigilanza dinamica Le norme sopra indicate vanno lette in combinato disposto, poi, con l’art. 11 d.d.l. in esame, che introduce ulteriori tutele per le vittime di violenza domestica, allo scopo di anticiparne la salvaguardia, consentendo alla polizia giudiziaria, già in fase di denuncia o querela, di segnalare al Prefetto le situazioni di concreto e rilevante pericolo per la loro incolumità, ai fini dell’adozione delle eventuali misure di c.d. vigilanza dinamica a loro tutela (vale a dire la sorveglianza svolta in forma mobile e continuativa da una o più autopattuglie nei pressi dell’abitazione di una persona e dei luoghi frequentati dalla stessa). Nello specifico, secondo tale disposizione, già in sede di denuncia-querela, quando si procede per fatti riconducibili ai reati di cui all’art. 362, comma 1-ter, c.p.p. commessi in ambito di violenza domestica (ossia i reati di tentato omicidio ovvero quelli, tentati o consumati, di cui agli artt. 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis, 582 e 583-quinquies c.p. quando aggravate dalla commissione in ambito domestico), l’organo di polizia che procede, «qualora dai primi accertamenti emergano concreti e rilevanti elementi di pericolo di reiterazione della condotta», ne deve dare comunicazione al Prefetto, il quale, sulla base delle valutazioni espresse nell’ambito delle riunioni di coordinamento dell’Ufficio provinciale per la sicurezza personale, può adottare misure di vigilanza dinamica, da sottoporre a revisione trimestrale, a tutela della persona offesa. Misure di prevenzione personali Lo schema di d.d.l. interviene poi sul codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, estendendo il catalogo dei soggetti dotati di pericolosità qualificata di cui all’art. 4, comma 1, lett. i-ter), a cui saranno applicabili le misure di prevenzione personali. In particolare, l’art. 4 d.d.l. aggiunge ai soggetti pericolosi ora previsti dalla norma sopra citata – ossia gli indiziati dei delitti di cui agli artt. 572 e 612-bis c.p. – anche gli indiziati dei delitti, consumati o tentati, di cui agli artt. 575, 583-quinquies e 609-bis c.p., nonché i soggetti che, già ammoniti dal Questore ai sensi dell’art. 3 D.L. 14 agosto 2013, n. 93, siano indiziati dei delitti di cui agli artt. 581, 582, 610, art. 612 comma 2, 614 e 635 c.p., commessi nell’ambito di violenza domestica. In altre parole, con la previsione in esame l’applicabilità delle misure di prevenzione personali – avviso orale, rimpatrio con foglio di via obbligatorio, sorveglianza speciale, obbligo e divieto di soggiorno – già prevista per gli indiziati dei reati di maltrattamenti e atti persecutori, viene estesa anche ai soggetti indiziati di altri gravi reati commessi nell’ambito dei fenomeni di violenza di genere (omicidio, violenza sessuale, deformazione o sfregio permanenti del viso) e ai soggetti che, già ammoniti dal Questore, risultino indiziati dei delitti di percosse, lesioni, violenza privata, minaccia aggravata, violazione di domicilio e danneggiamento, se commessi nell’ambito di violenza domestica. Sempre l’art. 4 d.d.l. mira poi a modificare l’art. 6, comma 3-bis, D.Lgs. n. 159/2011, prevedendo che quando la sorveglianza speciale sia applicata ai soggetti di cui all’art. 4, comma 1, lett. i-ter)), qualora l’interessato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo mediante braccialetto elettronico, alla misura di prevenzione siano aggiunte le prescrizioni di cui all’art. 8, comma 5, del codice antimafia ossia il divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più regioni ovvero il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi, frequentati abitualmente dalle persone cui occorre prestare protezione o da minori. Braccialetto elettronico, allontanamento dalla casa familiare e divieto di avvicinamento alla p.o. Sul versante propriamente processual-penalistico, invece, la prima norma a venire in rilievo è l’art. 2 d.d.l., che intende potenziare l’uso del c.d. braccialetto elettronico, sia per gli arresti domiciliari, sia in caso di allontanamento dalla casa familiare e di divieto di avvicinamento alla p.o. Nello specifico, rilevata l’ampia disponibilità da parte dello Stato di tali dispositivi elettronici, la norma slega anzitutto l’applicabilità della predetta modalità di controllo da eventuali problemi contingenti derivanti dal reperimento dei predetti dispositivi da parte della polizia giudiziaria, eliminando l’obbligo, attualmente previsto in capo al giudice procedente dal comma 1 dell’art. 275-bis c.p.p., di verificare preventivamente la disponibilità degli apparati necessari da parte della polizia giudiziaria. La previsione sopprime infatti l’inciso contenuto nell’art. 275-bis, comma 1, c.p.p. che subordina l’applicazione del braccialetto elettronico alla previa verifica, da parte del giudice, della loro disponibilità materiale in capo alla p.g., con ciò significando che la loro eventuale e contingente mancanza da parte delle forze dell’ordine non potrà certamente condizionare la decisione del giudice di disporre tale forma di controllo rafforzato, ad evidente tutela dell’incolumità delle persone offese. La spiegazione di tale scelta si trova indicata nella relazione tecnica di accompagnamento del d.d.l., laddove si evidenzia invero come il contratto di fornitura dei braccialetti elettronici stipulato dal Ministero dell’Interno, attualmente vigente, preveda l’attivazione mensile di una quantità massimale di dispositivi pari a 1.000 unità, con facoltà di innalzare tale quota fino al 20%. Alla data del 31 ottobre 2021, risulta essere stato registrato un numero complessivo di “attivazioni” pari a 14.907 braccialetti elettronici, con una media mensile di circa 426 unità, ampiamente inferiore pertanto rispetto alla quota massima di 1.200 unità attivabili. L’analisi dei dati – conclude la relazione tecnica – mostra dunque come «il rapporto tra la disponibilità di dispositivi elettronici e le richieste di applicazione è stato costantemente “in positivo”, atteso che la dotazione strumentale di “braccialetti” non è mai risultata insufficiente rispetto all’effettivo fabbisogno applicativo (1.200 braccialetti attivabili mensilmente contro 426 richieste, in media, di attivazione, pari al 35,5% della disponibilità strumentale). Il massimale di dispositivi elettronici disponibili, dunque, oltre ad essere stato ben definito contrattualmente, è risultato ampiamente e sistematicamente capiente, pur a fronte di esigenze sopravvenute e precedentemente non preventivabili». Sempre l’art. 2 d.d.l. mira poi a modificare l’art. 276, comma 1-ter, c.p.p. relativo alla trasgressione delle prescrizioni imposte con la misura cautelare degli arresti domiciliari, prevedendo la revoca della stessa e l’applicazione della custodia cautelare in carcere non soltanto in caso di allontanamento dal luogo di sottoposizione agli arresti, ma anche in caso di «manomissione» dei dispositivi elettronici di controllo. Stessa sorte per il soggetto controllato che manometta il braccialetto elettronico – ossia applicazione della custodia cautelare in carcere in luogo della misura violata – viene introdotta anche nel caso in cui tale sistema di controllo sia stato applicato con le misure dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.) ovvero del divieto di avvicinamento alla p.o. (art. 282-ter c.p.p.).  L’art. 2 d.d.l. interviene altresì direttamente sulla misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare prevista dall’art. 282-bis c.p.p., da un lato inserendo tra le ipotesi che la consentono sempre, anche fuori dai limiti di pena di cui all’art. 280 c.p.p., quella del tentato omicidio (previsione a ben vedere del tutto inutile, sia in considerazione della cornice edittale del reato, di gran lunga superiore a tale limite, sia perché in genere tale fattispecie impone l’adozione di misure cautelari ben più incisive); dall’altro, disponendo invece che, «con lo stesso provvedimento che dispone l’allontanamento, il giudice prevede l’applicazione, anche congiunta, di una misura più grave qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo» mediante il braccialetto elettronico. L’art. 2 d.d.l. colma inoltre – finalmente – un grave deficit di coordinamento tra l’art. 282-bis c.p.p. e l’art. 282-ter c.p.p., estendendo anche al secondo le previsioni già contenute nell’art. 282-bis, comma 6, c.p.p. che consentono, nel caso in cui si proceda per i reati di cui agli artt. 570, 571, 572, 582 limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o comunque aggravate, 600-bis, 600-ter, 609-quater, 600-septies.1, 600-septies.2, 601, 602, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, art. 612 comma 2 e 612-bis c.p., di disporre la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla p.o. e ai luoghi dalla medesima frequentati anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 280 c.p.p. (ossia pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni). Si tratta di una modifica da salutare con assoluto favore, giacché la mancanza – ad oggi – di una previsione nell’art. 282-ter c.p.p. analoga a quella contenuta nell’art. 282-bis, comma 6, c.p.p. rende impossibile l’applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento alla p.o. con riferimento a tutte quelle situazioni in cui non vi sia una convivenza in atto tra le parti e non sia dunque possibile disporre un allontanamento dalla casa familiare, ma si ponga nondimeno l’esigenza cautelare di imporre il divieto di avvicinamento alla p.o. (ad es. minacce o lesioni tra ex partner). Anche in questo caso, in modo analogo e specularmente a quanto previsto per la modifica dell’art. 282-bis c.p.p., il d.d.l. mira a disporre che «con lo stesso provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento, il giudice prevede l’applicazione, anche congiunta, di una misura più grave qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo previste dall’articolo 275-bis». La previsione appare evidentemente finalizzata a conferire maggior effettività alla decisione del giudice di procedere all’applicazione congiunta del braccialetto elettronico unitamente all’allontanamento o al divieto di avvicinamento, facendo premio sul consenso del cautelato, il quale viene messo in guardia sul fatto che un eventuale suo dissenso implicherà l’applicazione di misure maggiormente afflittive (e di intensità ovviamente crescente: obbligo o divieto di dimora, arresti domiciliari, custodia cautelare in carcere). Sul punto siano consentite due brevi notazioni: la prima è che – giusta la previsione all’indicativo – l’applicazione di una misura più grave, in caso di dissenso, sarà necessariamente obbligatoria per il giudice. La seconda è che la previsione contiene un riferimento, ossia il richiamo alla figura dell’“imputato” anziché a quella dell’“indagato”, che merita di essere corretto – e anche con urgenza – in sede parlamentare e nella stesura del testo di legge definitivo, pena altrimenti l’inapplicabilità della norma in fase di indagini preliminari, trattandosi di evidente estensione in malam partem exart. 61 c.p.p. Misure cautelari: sempre possibili per lesioni aggravate e violazione dell’allontanamento o del divieto di avvicinamento ex art. 387-bis c.p. Lo schema di d.d.l. contiene, poi, alcune disposizioni che mirano a rendere più agevole e maggiormente effettiva l’applicazione delle misure cautelari per alcune ipotesi delittuose in materia di violenza di genere o domestica. Tra queste, la prima è l’art. 3 d.d.l. che è volto ad estendere l’applicabilità della custodia cautelare in carcere e, più in generale, delle misure cautelari con riferimento al reato di lesioni, qualora commesso in contesti familiari o nell’ambito di relazioni affettive, tramite l’introduzione di un’ulteriore eccezione al disposto dell’art. 275, comma 2-bis, c.p.p. in caso di prognosi di pena infratriennale, nonché prevedendo in ogni caso la possibilità di fare applicazione delle misure cautelari coercitive anche fuori dai limiti di pena dell’art. 280 c.p.p.. In particolare, la nuova previsione va ad aggiungersi alle eccezioni espresse già previste dall’art. 275, comma 2-bis, c.p.p. (inadeguatezza di qualsiasi altra misura, trasgressione delle prescrizioni imposte e gravi reati ivi previsti), prevedendo che il requisito della prognosi di pena infratriennale non si applichi, ai fini della custodia cautelare in carcere, anche nell’ambito dei procedimenti per il reato di lesioni personali di cui all’art. 582 c.p., qualora esse siano aggravate ai sensi degli artt. 576, comma 1, nn. 2), 5) e 5.1) o 577, comma 1, n. 1), e comma 2 c.p. (ossia quando siano commesse contro l’ascendente, il discendente, il coniuge anche separato o divorziato, l’altra parte dell’unione civile anche cessata, la persona stabilmente convivente o legata da relazione affettiva anche cessate, il fratello, la sorella, l’adottante, l’adottato o l’affine il linea retta, nonché quando i fatti siano commessi in occasione dei reati di cui agli artt. 572, 583-quinquies, 600-bis, 600-ter, 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p. ovvero dall’autore del reato di cui all’art. 612-bis c.p. nei confronti della persona offesa). Analogamente, sempre l’art. 3 d.d.l. intende modificare anche l’art. 280 c.p.p., con l’inserimento al suo interno di un inedito comma 3-bis che esclude, sempre in caso di lesioni aggravate nei termini sopra indicati, l’applicazione dei limiti di pena previsti da tale diposizione quali condizioni di applicabilità delle misure cautelari coercitive, consentendone così sempre l’applicazione, anche fuori dai limiti di pena ivi previsti. Nella medesima ottica, allo scopo di far fronte alle criticità evidenziate in apertura del presente contributo sull’art. 387-bis c.p., l’art. 3 d.d.l. mira, inoltre, ad introdurre una modifica che, in modo proverbiale, taglia il “nodo gordiano” del mancato coordinamento tra le norme in materia di misure cautelari e quelle sull’arresto obbligatorio in flagranza per violazione di tale fattispecie, in modo da consentire anche in rifermento ad essa l’applicazione di misure cautelari. Per risolvere tale aporia il provvedimento in esame intende infatti modificare l’art. 391, comma 5, c.p.p. – norma che, come noto, in determinati casi, consente l’applicazione delle misure cautelari anche fuori dai limiti di pena previsi dagli artt. 274, comma 1, lett. c) e 280 c.p.p. – andando ad aggiungere, alle ipotesi già previste dal codice di rito dei reati (consumati) per cui sia consentito l’arresto facoltativo in flagranza di cui all’art. 381, comma 2, c.p.p. e dei delitti per cui sia consentito l’arresto anche fuori dai casi di flagranza (ad es. evasione), quella dei delitti, consumati o tentati, per cui sia disposto l’arresto obbligatorio in flagranza di cui all’art. 380, comma 2, c.p.p. (tra i quali rientra, appunto, proprio il reato di cui all’art. 387-bis c.p.). Come si legge nella relazione tecnica di accompagnamento del d.d.l., la modifica proposta al comma 5 dell’articolo 391 c.p.p. «interviene per colmare la lacuna relativa ad alcune tipologie di reati, tra cui alcuni particolarmente riprovevoli per la società e lesivi della dignità della persona, per i quali, nonostante l’applicabilità dell’arresto obbligatorio a norma dell’art. 380, comma 2, c.p.p. non è prevista attualmente l’applicazione di misure cautelari coercitive». Ciò riguarda, segnatamente, proprio il reato di cui all’art. 387-bis c.p., i cui limiti edittali – come rileva anche la relazione di accompagnamento del d.d.l. – non consentono attualmente di «procedere, eseguito l’arresto, all’applicazione di alcuna misura cautelare, con la conseguenza che all’arresto dovrà conseguire l’immediata liberazione dell’arrestato». Lo stesso art. 3 d.d.l. inserisce, infine, nell’art. 391, comma 5, c.p.p. anche un ulteriore caso in cui sarà possibile applicare le misure cautelari fuori dei limiti di pena previsti dagli artt. 274 e 280 c.p.p., ossia quando si farà ricorso alla nuova ipotesi di fermo del P.M. o di p.g. prevista dall’introducendo comma 1-bis dell’art. 384 c.p.p. (su cui v. infra il prossimo paragrafo). Tale modifica – secondo quanto riporta la relazione di accompagnamento al d.d.l. – si è resa strettamente conseguente all’intervento sulla disciplina del fermo ed è volta a consentire, nell’ottica dei suoi proponenti, che anche nei casi in cui sia disposto il fermo ai sensi del nuovo comma 1-bis dell’art. 384 c.p.p. operi la deroga ai limiti di pena previsti dagli artt. 274 e 280 c.p.p. ai fini dell’applicazione delle misure cautelari, modifica in mancanza della quale «non sarebbe altrimenti possibile l’applicazione della misura cautelare coercitiva per delitti, quali ad esempio quello di lesioni non aggravate (da circostanze speciali o ad effetto speciale), che spesso preludono a condotte più gravi». In realtà, come subito vedremo, ad eccezione che per la suddetta fattispecie di lesioni semplici, tale preoccupazione non ha alcun senso, giacché l’introducenda previsione di cui all’art. 384, comma 1-bis, c.p.p. da un lato fa riferimento a fattispecie (i maltrattamenti e gli atti persecutori) dotati di pene ben superiori a quelle previste dagli artt. 274 e 280 c.p.p., dall’altro si applicherà a reati puniti con una pena edittale che coincide comunque con gli stessi limiti di pena previsti dall’art. 280 c.p.p. per l’applicazione delle misure coercitive (reclusione superiore nel massimo a tre anni). Una nuova ipotesi di fermo del PM o di p.g. per grave e imminente pericolo della vittima L’art. 6 d.d.l. mira ad introdurre una nuova figura precautelare: il fermo del PM o, in caso di urgenza, della polizia giudiziaria, della persona gravemente indiziata dei delitti di maltrattamenti, lesioni o atti persecutori ovvero di qualsiasi altro delitto commesso con violenza o minaccia alla persona punito con la pena dell’ergastolo o superiore nel massimo a tre anni, qualora vi sia il grave ed imminente pericolo che l’indiziato commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale e, per l’urgenza, non sia possibile attendere il provvedimento del giudice. La norma proposta così si esprime: «Anche fuori dei casi di cui al comma 1 e di quelli di flagranza, il pubblico ministero dispone, con decreto motivato, il fermo della persona gravemente indiziata di uno dei delitti previsti dagli articoli 572, 582 e 612-bis del codice penale o di delitto, consumato o tentato, commesso con minaccia o violenza alla persona per il quale la legge prevede la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, quando sussistono specifici elementi per ritenere grave e imminente il pericolo che la persona indiziata commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale, quando non è possibile, per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento del giudice». La stessa previsione estende, poi, il medesimo istituto anche alla p.g., che potrà procedere, negli stessi casi, al fermo d’iniziativa prima che il PM abbia assunto la direzione delle indagini. Detta disposizione – sottolinea la relazione di accompagnamento al d.d.l. – «nell’ottica di una pronta ed efficace tutela dell’incolumità della persona offesa, permette l’intervento tempestivo alla polizia giudiziaria qualora l’urgenza della situazione, valutata sulla base di specifici elementi, non consenta di attendere il provvedimento cautelare del giudice. La nuova misura viene prevista per categorie di reati, quali i maltrattamenti in famiglia, le lesioni e lo stalking, che normalmente preludono alla commissione di condotte criminose più gravi o comunque delitti commessi con minaccia e violenza, anch’essi sintomatici di una condotta aggressiva e violenta dell’autore, in ordine alla quale è necessario un intervento tempestivo per evitare che la vita o l’incolumità della persona offesa sia posta in pericolo con la commissione di delitti con uso di armi o con altri mezzi di violenza personale». Si tratta di un istituto evidentemente ibrido, del tutto inedito nel nostro ordinamento, che rappresenta una vera e propria “chimera” del diritto, nella misura in cui mescola, sommandoli in sé, da un lato, i caratteri del fermo del PM o di p.g. – tradizionalmente rivolti a prevenire il rischio di fuga dell’indiziato di delitto e da cui mutua invece il carattere residuale (anche fuori da casi di cui al comma 1) e l’eccezionalità (anche fuori dai casi di flagranza e la situazione di urgenza che non consente di attendere il provvedimento del giudice) – e, dall’altro, i requisiti delle misure cautelari, vale a dire la gravità indiziaria e l’esigenza cautelare del pericolo di recidiva, qui tuttavia restrittivamente intesa come pericolo di commissione di gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale (e non anche come mero pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede). Salvo modifiche in sede parlamentare, requisiti del nuovo istituto saranno quindi: 1) la sussistenza di uno dei reati tipizzati (artt. 572, 582 o 612-bis c.p.) o di qualsiasi altro delitto, consumato o tentato, commesso con minaccia o violenza alla persona e punito almeno con pena superiore a tre anni di reclusione; 2) la gravità indiziaria; 3) il grave e imminente pericolo dell’uso di armi o di altri mezzi di violenza personale; 4) l’impossibilità, per l’urgenza, di attendere il provvedimento del giudice. È evidente come tale nuova previsione, in maniera congruente rispetto all’eccezionalità e all’urgenza delle situazioni di imminente e grave pericolo per l’incolumità delle persone che sarà chiamata a fronteggiare, avrà dei margini applicativi estremamente limitati e selettivi – che la prassi operativa dovrà inevitabilmente concretizzare – nella misura in cui appare idonea a coprire idealmente quello spazio interstiziale che non può essere riempito, da un lato, con l’arresto in flagranza o quasi-flagranza ad opera della p.g. e, dall’altra, con l’emissione di una tempestiva misura cautelare da parte del giudice, a causa (non già del mero pericolo di reiterazione del reato, bensì) del grave e imminente pericolo dell’uso di armi o di altri mezzi di violenza personale. Arresto in flagranza differita per l’art. 387-bis c.p. Sempre nell’ottica di potenziare gli strumenti di repressione per il reato di cui all’art. 387-bis c.p., il d.d.l. in esame vorrebbe estendere inoltre anche a tale reato l’istituto del c.d. arresto in flagranza differita, finora sperimentato solo in materia di reati commessi durante o in occasione di manifestazioni sportive (art. 8, comma 1-ter, L. 13 dicembre 1989, n. 401), ovvero con violenza alle persone o alle cose, compiuti alla presenza di più persone anche in occasioni pubbliche (art. 10, comma 6-quater, D.L. 20 febbraio 2017, n. 14), ovvero, ancora, commessi con le medesime modalità in occasione o a causa del trattenimento in un centro di permanenza per rimpatri (CPR o hotspot) o durante la permanenza nelle strutture di primo soccorso e accoglienza (CPA e CAS) (art. 14, comma 7-bis, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286). L’art. 12 d.d.l. prevede infatti che, nei casi di cui all’art. 387-bis c.p., «si considera comunque in stato di flagranza colui il quale, sulla base di documentazione video fotografica dalla quale emerga inequivocabilmente il fatto, ne risulta autore, sempre che l’arresto sia compiuto non oltre il tempo necessario alla sua identificazione e, comunque, entro le quarantotto ore dal fatto». Rispetto agli analoghi istituti già conosciuti vengono dunque mutuati i requisiti della documentazione video-fotografica e il termine di 48 ore dal fatto entro cui deve essere effettuato in ogni caso l’arresto. Viene al contrario meno l’altro presupposto tradizionalmente previsto dalle norme sopra indicate – qui superfluo alla luce della tipologia di reato per cui viene introdotto – ossia il fatto che non sia possibile procedere immediatamente all’arresto dell’autore del fatto per ragioni di sicurezza o incolumità pubblica. Per quanto apprezzabile nella sua ottica di tutela, sul piano pratico la proposta si rivela in realtà priva di concreta effettività. Appare infatti assai difficile ipotizzare che, nei casi di violazione dei provvedimenti di allontanamento o di divieto di avvicinamento, sia acquisita (non genericamente qualsiasi documentazione, ma specificamente) documentazione video fotografica da cui «emerga inequivocabilmente il fatto» e chi «ne risulta autore», così da consentire di procedere al suo arresto in differita. È noto al contrario come il reato di cui all’art. 387-bis c.p. venga normalmente provato sulla base di dichiarazioni rese dalla stessa p.o. o da testimoni, di messaggi, tabulati o report del braccialetto elettronico (quando applicato), mentre assai difficilmente tra i suoi elementi di prova figurano videoriprese o fotografie. Arresto obbligatorio anche in caso di violazione degli ordini di protezione civili L’art. 8 d.d.l. equipara poi la violazione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari emessi dal giudice civile di cui all’art. 342-ter c.c. alla violazione degli analoghi provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare o di divieto di avvicinamento alla p.o. adottati dal giudice penale exartt. 282-bis e 282-ter c.p.p. (ed agli ordini di allontanamento d’urgenza disposti dalla p.g. ai sensi dell’art. 384-bis c.p.p.), prevedendo per entrambe le ipotesi l’integrazione del reato di cui all’art. 387-bis c.p. Per far ciò, il d.d.l. sposta dall’art. 388 c.p. all’art. 387-bis c.p. la disciplina della violazione di tali ordini di protezione, stabilendo che la pena prevista dall’art. 387-bis c.p. si applichi anche «a chi elude l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342-ter, primo comma, del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio». Violare un ordine di allontanamento o un divieto di avvicinamento emesso dal giudice civile equivarrà pertanto a violare quello emesso dal giudice penale: in entrambi i casi sarà dunque previsto l’arresto obbligatorio in flagranza di reato, così come disposto dal novellato art. 380, comma 2, lett. l-ter)c.p.p., e saranno possibili sia l’arresto in flagranza differita (coi limiti sopra indicati), sia l’applicazione delle misure cautelari coercitive anche fuori dai limiti di cui agli artt. 274, comma 1, lett. c) e 280 c.p.p., così come previsto dallo stesso d.d.l. Comunicazioni alla p.o. in caso di scarcerazione o cessazione della misura di sicurezza L’art. 5 d.d.l. mira invece a riordinare e raggruppare in un’unica norma disposizioni già vigenti nell’ordinamento ma sparse tra l’art. 90-ter c.p.p. e l’art. 659 c.p.p. e relative alle comunicazioni che devono essere effettuate dall’autorità giudiziaria alle vittime dei reati violenti in ordine ai provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, nonché in caso di evasione dell’imputato o del condannato o della volontaria sottrazione all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva da parte dell’internato. Si tratta invero di disposizioni introdotte nel nostro ordinamento, inizialmente, nel 2015 (con il D.Lgs. n. 212/2015, attuativo della Direttiva 2012/29/UE sui diritti, l’assistenza e la protezione delle vittime di reato) e che sono state successivamente incrementate nel loro contenuto, rispettivamente, nel 2019 con la legge sul c.d. codice rosso (L. n. 69/2019), che ha reso obbligatoria tale comunicazione a prescindere da una richiesta della p.o. nel caso in cui si tratti di reati da c.d. codice rosso, e poi nel 2021 con la legge di riforma del processo penale (L. n. 134/2021), che ha esteso l’applicazione di tali previsioni anche ai reati tentati e non soltanto consumati. Per far ciò, la disposizione di cui all’art. 90-ter, comma 1, c.p.p. viene modificata facendo generico riferimento a tutti i provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva «emessi nei confronti dell’imputato in stato di custodia cautelare o del condannato o dell’internato», mentre viene contestualmente abrogata la disposizione di cui al comma 1-bis dell’art. 659 c.p.p. Si tratta di una scelta decisamente felice, nella misura in cui attua un apprezzabile riordino normativo, evitando la frammentazione delle norme in due distinte disposizioni. Come rileva infatti la relazione tecnica al d.d.l., con la modifica proposta «si estende la previsione dell’immediata comunicazione alle vittime di violenza domestica o di genere, di tutti i provvedimenti “de libertate” inerenti l’autore del reato, sia esso imputato, condannato o internato, raggruppando in un’unica norma le disposizioni dettate in altri articoli del codice di procedura penale – tra cui l’art. 659, comma 1-bis che viene, pertanto, abrogato – le quali non risultano di chiara lettura e di lineare interpretazione». Purtroppo però, ancora una volta, deve osservarsi come la norma che si mira ad introdurre continui a fare improprio riferimento – come già si esprime adesso l’art. 90-ter c.p.p. – alla figura dell’“imputato” anziché a quella dell’“indagato”, con una scelta lessicale assai infelice, nella misura in cui può ingenerare facilmente dubbi nell’interprete circa la sua non applicabilità anche alla fase delle indagini preliminari (dove, anzi, è massima l’esigenza di tutela della p.o. contro il rischio di ritorsioni o di nuove aggressioni da parte del soggetto cautelato o internato che venga scarcerato o liberato o che evada o si sottragga alla misura di sicurezza). In secondo luogo, merita qui osservare come il trasferimento all’interno dell’art. 90-ter c.p.p. delle previsioni prima contenute nell’art. 659, comma 1-bis, c.p.p. e la contestuale abrogazione di quest’ultima disposizione, abbiano l’effetto di estendere ed ampliare l’area delle comunicazioni dovute alle persone offese, rispetto a quanto oggi previsto. Mentre il comma 1-bis dell’art. 659 c.p.p. fa infatti ora riferimento, in senso restrittivo, alle (sole) scarcerazioni conseguenti all’esecuzione di un provvedimento del giudice di sorveglianza che disponga (o comporti: come nel caso della liberazione anticipata) la scarcerazione del condannato, le modifiche che si vogliono introdurre nel nuovo art. 90-ter c.p. comporteranno viceversa la sua applicazione – indistintamente – a tutti i provvedimenti di scarcerazione o di cessazione della misura di sicurezza detentiva (genericamente) emessi nei confronti di chi si trovi «in stato di custodia cautelare o del condannato o dell’internato». Qualora si proceda pertanto per reati da c.d. codice rosso, nel caso di scarcerazione o di evasione o di cessazione della misura di sicurezza detentiva o di sottrazione alla stessa, per qualunque motivo esse avvengano, dovrà essere sempre data immediata comunicazione scritta alla persona offesa, tramite la polizia giudiziaria, dell’avvenuta “liberazione” del soggetto scarcerato, evaso o non più detenuto o internato, a prescindere da un’espressa richiesta di informazione della p.o. in tal senso, sia che ciò accada nel corso del procedimento di cognizione (in ogni fase, stato o grado), sia che la scarcerazione o la cessazione della misura di sicurezza vengano disposte in fase esecutiva dal giudice dell’esecuzione o dal magistrato di sorveglianza (o dal P.M., che dia esecuzione a un provvedimento di quest’ultimo). Comunicazione dei provvedimenti di estinzione, revoca o sostituzione delle misure coercitive al Questore e al Prefetto La disposizione di cui all’art. 5 d.d.l. va poi letta in combinato disposto con l’art. 9 d.d.l., la quale ha lo scopo di rafforzare ulteriormente le misure di contrasto dei fenomeni di violenza di genere, attraverso la creazione di una sinergia informativa tra autorità giudiziaria e forze dell’ordine, prevedendo nello specifico che, in caso di scarcerazione, revoca o sostituzione delle misure cautelari, oltre alle persone offese, siano avvisati anche il Questore e il Prefetto, al fine di consentire loro di valutare l’adozione di eventuali misure di prevenzione e/o protezione nei confronti della vittima. In particolare, la disposizione prevede – con una tuttavia non perfetta sovrapposizione casistica di fattispecie criminose tra le due ipotesi, che merita di essere omogeneizzata in sede parlamentare – che nei procedimenti per i delitti di cui all’art. 4, comma 1, lett. i-ter)), D.Lgs. n. 159/2011 (ossia artt. 572, 612-bis, 575, 583-quinquies, 609-bis, 581, 582, 610, art. 612 comma 2, 614 e 635 c.p.), l’estinzione o la revoca delle misure coercitive previste dagli articoli 282-bis (allontanamento dalla casa familiare), 282-ter (divieto di avvicinamento), 283 (divieto e obbligo di dimora), 284 (arresti domiciliati), 285 (custodia cautelare in carcere) e 286 (custodia cautelare in luogo di cura) c.p.p., nonché la loro sostituzione con altra misura meno grave, siano comunicati al Questore, per le valutazioni di competenza in materia di misure di prevenzione (da intendersi personali: avviso orale, rimpatrio con foglio di via obbligatorio, sorveglianza speciale, obbligo e divieto di soggiorno). Allo stesso modo, il d.d.l. prevede che nei procedimenti per i delitti di cui all’art. 362, comma 1-ter, c.p.p. (ossia tentato omicidio e, nelle forme tentate o consumate, artt. 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis, 582 e 583-quinquies c.p. quando aggravate dalla commissione in ambito domestico), l’estinzione o la revoca delle stesse misure coercitive sopra indicate o la loro sostituzione con altra misura meno grave siano comunicate al Prefetto, il quale, sulla base delle valutazioni espresse nell’ambito delle riunioni di coordinamento dell’Ufficio provinciale per la sicurezza personale, può adottare misure di vigilanza dinamica, da sottoporre a revisione trimestrale, a tutela della persona offesa (ossia, come si ricordava sopra, la sorveglianza svolta in forma mobile e continuativa da una o più autopattuglie nei pressi dell’abitazione e dei luoghi frequentati dalla vittima). Sospensione condizionale della pena L’art. 7 d.d.l. è rivolto, invece, a disciplinare finalmente nel dettaglio il meccanismo della sospensione condizionale della pena nei confronti degli autori dei reati da c.d. codice rosso, prevedendo una serie di passaggi rigorosi, oggetto di verifica da parte del giudice, che comportano il coinvolgimento anche degli uffici di esecuzione penale esterna e degli enti ed associazioni presso cui vengono svolti i percorsi di recupero degli autori di tali reati. Come noto, l’art. 165, comma 5, c.p. prevede infatti che nei casi di condanna per il delitto di tentato omicidio ovvero per i delitti, consumati o tentati, di maltrattamenti, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, corruzione di minorenne, violenza sessuale di gruppo, atti persecutori, lesioni personali e sfregio permanente del volto, nelle ipotesi aggravate perché commesse contro prossimi congiunti, conviventi o persone legate da relazione affettiva, la sospensione condizionale della pena debba essere sempre subordinata alla partecipazione del condannato a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati. Come ricorda anche la relazione di accompagnamento al d.d.l., «la norma, tuttavia, non individua alcuna istituzione pubblica che possa fornire al giudice la consulenza necessaria sia per individuare gli enti o le associazioni presso cui svolgere i programmi riabilitativi, sia per supervisionare l’effettivo svolgimento dei percorsi di recupero». Per far fronte a tali esigenze il d.d.l. individua come struttura di elezione l’ufficio di esecuzione penale esterna (U.E.P.E.). Nel modificare l’art. 165, comma 5, c.p.p. e l’art. 18-bis disp. att. c.p., il d.d.l. prevede infatti che al fine di individuare gli enti o le associazioni e gli specifici percorsi di recupero cui il condannato deve partecipare – ed alla cui frequenza è subordinata la sospensione condizionale della pena – il giudice si avvalga degli uffici di esecuzione penale esterna, a cui la cancelleria dovrà trasmettere la sentenza emessa, una volta passata in giudicato. Agli U.E.P.E. spetterà poi accertare «l’effettiva partecipazione del condannato al percorso di recupero» e comunicarne «l’esito al pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza» (oltreché, è da ritenersi, anche allo stesso giudice). Dal canto loro, gli enti e le associazioni presso cui il condannato svolge il percorso di recupero saranno chiamati a un importante ruolo di vigilanza proattiva sulla corretta esecuzione del programma di recupero, dovendo dare «immediata comunicazione di qualsiasi violazione ingiustificata degli obblighi connessi allo svolgimento del percorso di recupero all’ufficio di esecuzione penale esterna», il quale ne darà «a sua volta immediata comunicazione al pubblico ministero, ai fini della revoca della sospensione» condizionale della pena, ai sensi dell’art. 168, comma 1, n. 1), c.p. Viene così finalmente precisato un aspetto finora rimasto dubbio nella prassi, ossia chi e come dovesse procedersi ad accertare la regolare partecipazione del condannato all’opera di rieducazione: con l’approvazione delle modifiche proposte, nel caso in cui sia accertata la mancata partecipazione del condannato al percorso di recupero o anche solo il mancato adempimento o la violazione di uno degli obblighi imposti allo stesso, scatterà l’immediata comunicazione dell’inadempimento al PM e la conseguente richiesta di revoca della sospensione condizionale (con consequenziale messa in esecuzione della pena). Provvisionale per le vittime di reati violenti L’art. 10 d.d.l. è volto infine a stabilire alcune provvidenze concrete nei confronti delle vittime o, in caso di morte, dei loro aventi diritto che, in conseguenza di alcuni gravi reati commessi nell’ambito dei fenomeni di violenza di genere e di violenza domestica, vengano a trovarsi in stato di bisogno, consentendo loro di chiedere una provvisionale a carico dello Stato, quale “anticipo” sull’erogazione definitiva dell’indennizzo previsto dalle norme vigenti. Nello specifico, la norma mira ad introdurre un nuovo art. 13-bis alla L. 7 luglio 2016, n. 122, prevedendo che la vittima o, in caso di morte, i suoi aventi diritto che, in conseguenza dei reati di omicidio, violenza sessuale, lesione personale gravissima o deformazione mediante lesioni permanenti al viso, «commessi dal coniuge anche separato o divorziato o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, vengano a trovarsi in stato di bisogno, possono chiedere una provvisionale da imputarsi nella liquidazione definitiva dell’indennizzo» previsto a carico dello Stato dall’art. 11 della stessa legge, negli importi da ultimo determinati dal D.M. 22 novembre 2019. La relazione tecnica al d.d.l. evidenzia come nel corso dell’anno 2021, primo anno dell’applicazione a regime dei nuovi importi previsti dal D.M. 22 novembre 2019, in vigore dal 1° febbraio 2020, siano stati erogati complessivamente indennizzi per quasi 5 milioni di euro, di cui 1.980.000 euro per c.d. femminicidi. Secondo le nuove disposizioni, l’istanza deve essere presentata al Prefetto della provincia di residenza o nella quale è stato commesso il reato, il quale, entro sessanta giorni dal ricevimento dell’istanza, verifica la sussistenza dei requisiti, avvalendosi anche degli organi di polizia competenti. La provvisionale potrà essere assegnata in misura non superiore a 1/3 dell’importo dell’indennizzo spettante. La norma introducenda prevede altresì – quale elemento di assoluta novità – che la provvisionale possa essere richiesta anche nella fase delle indagini preliminari e sulla base degli atti del procedimento penale. In tal caso, la provvisionale è concessa alle medesime condizioni, previo parere del PM competente. Come sottolinea la relazione di accompagnamento al d.d.l., in tal modo la nuova previsione «supera l’attuale limite della necessità dell’acquisizione della sentenza di condanna, attualmente previsto quale elemento indissolubile per il riconoscimento e la conseguente elargizione dell’indennizzo», offrendo così alle vittime di tali gravi reati una concreta e tempestiva fonte di ristoro. Conclusioni L’intervento normativo proposto, pur con le criticità sopra evidenziate e nell’incertezza di alcune sue previsioni, si presta certamente a un giudizio positivo sul suo contenuto, muovendosi in un’ottica di deciso incremento del tasso di effettività delle misure a tutela delle vittime dei fenomeni di violenza di genere. Forti riserve, invece, continuano a mantenersi sulle modalità e sui tempi dell’intervento, quantomeno per quanto riguarda le modifiche che si rendono necessarie per porre rimedio alle storture ingenerate dalla riforma Cartabia con l’introduzione dell’arresto obbligatorio in flagranza per la violazione dell’art. 387-bis c.p. In assenza di un intervento urgente, tramite decreto legge, sulle norme vigenti, rimarrà intatto il grave vulnus inferto al sistema e alle vittime di tali gravi reati fino all’approvazione definitiva delle nuove norme: rebus sic stantibus, infatti, tutti gli arresti in flagranza per violazione dell’allontanamento dalla casa familiare o del divieto di avvicinamento alla p.o., pure obbligatori sulla carta, continueranno a rimanere del tutto inefficaci in concreto, imponendo ai magistrati inquirenti (prima) ed a quelli giudicanti (poi) di disporre l’immediata liberazione degli arrestati, con buona pace delle istanze di tutela delle persone offese.

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