Godimento esclusivo del bene in comunione: limiti della responsabilità del comproprietario
Il godimento esclusivo del bene in comunione è in sé legittimo e si colora d’illiceità solo ove oltrepassi i limiti fissati dall’art. 1102 c.c., che consente di servirsi della cosa comune, purché non ne venga alterata la destinazione e non si impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto: solo la violazione di tali limiti consente di configurare un danno risarcibile. I limiti della responsabilità risarcitoria del comproprietario che occupi in via esclusiva l’immobile comune sono stati ampiamente analizzati da Luciano Ciafardini - Magistrato, assistente di studio nella Corte costituzionale, dottore commercialista e Revisore legale in un approfondimento ad hoc pubblicato sulla rivista Immobili e proprietà, il mensile edito da IPSOA che si rivolge ad avvocati, notai, amministratori di condominio, consulenti legali, agenzie immobiliari e a tutti coloro che affrontano quotidianamente i problemi legati alla amministrazione, gestione e compravendita degli immobili. Le facoltà di utilizzo della cosa comune Nel sistema della comunione del diritto di proprietà per quote ideali, ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (art. 1102 c.c.). Il legislatore non ha operato una elencazione delle facoltà di godimento, attribuendo al partecipante il potere di servirsi della cosa comune in tutti i modi che non siano vietati[1]. Ciò significa che ogni compartecipe gode del bene comune in maniera diretta e promiscua, purché, oltre a conservarne la destinazione originaria, non impedisca l’esercizio delle pari facoltà di godimento che spettano agli altri comproprietari. In sostanza, tutti i partecipanti alla comunione devono ritenersi proprietari e possessori della cosa comune, perché il comproprietario è titolare di un diritto che, sia pure nei limiti segnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti, investe l’intera cosa comune[2] (e non una sua frazione)[3]. La regola generale in tema di godimento della cosa comune è l’uso collettivo: ciascun compartecipante può servirsi della cosa comune in qualunque tempo[4]. La nozione di “uso paritetico”, però, non può essere intesa in termini di assoluta identità di utilizzazione della res, poiché una lettura in tal senso della norma, in una dimensione spaziale o temporale, comporterebbe il sostanziale divieto, per ciascun condomino, di fare, della cosa comune, qualsiasi uso particolare a proprio vantaggio[5]. Dunque, la disposizione codicistica consente al comproprietario l’utilizzazione ed il godimento della cosa comune anche in modo particolare e più intenso, ovvero nella sua interezza (in solidum)[6], essendo posto solo il divieto di alterare la destinazione della cosa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. La norma di cui all’art. 1102 c.c., in altre parole, assicura al singolo partecipante, quanto all’esercizio concreto del suo diritto, le maggiori possibilità di godimento della cosa e legittima quest’ultimo, entro i limiti indicati, a servirsi di essa anche per fini esclusivamente propri, traendone ogni possibile utilità[7]. L’esercizio della facoltà di ogni condomino di servirsi della cosa comune, nei limiti indicati dall’art. 1102 c.c., deve però esaurirsi nella sfera giuridica e patrimoniale del diritto di comproprietà sulla cosa stessa e non può essere esteso, quindi, per il vantaggio di altre e diverse proprietà esclusive del medesimo comproprietario, perché, in tal caso, si verrebbe ad imporre una servitù sulla res comune in favore di beni estranei alla comunione, per la cui costituzione è necessario il consenso di tutti i comproprietari[8]. Tra le facoltà di ogni comproprietario di utilizzare le cose comuni non è compresa neppure quella di renderle, sia pure temporaneamente, inservibili o di deteriorarle[9]: i limiti al diritto del compartecipe di servirsi della cosa comune importano, infatti, l’esigenza di servirsi della cosa civiliter, non solo nel senso della moderazione, ma anche dell’impiego delle cautele e degli accorgimenti che, senza diminuire il godimento del partecipante, valgano ad evitare un deperimento anormale della cosa, nocivo al godimento di tutti[10]. In definitiva, l’utilizzo da parte del singolo proprietario, in sé lecito, non deve risolversi in una compressione quantitativa o qualitativa di quello, attuale o potenziale, di tutti gli altri comproprietari. La valutazione circa la legittimità di un uso particolare va effettuata dal giudice di merito in base al confronto tra uso diverso e destinazione possibile della cosa, quale stabilita anche per implicito dai condomini[11]. È quindi imposta al giudice, ove sia denunciato il superamento dei limiti previsti dall’art. 1102 c.c. per l’occupazione della cosa comune fatta da un comproprietario, un’indagine diretta all’accertamento della duplice condizione che il bene, nelle parti residue, sia sufficiente a soddisfare anche le potenziali, analoghe esigenze dei rimanenti partecipanti alla comunione, e che lo stesso, ove tutte le predette esigenze risultino soddisfatte, non perderebbe la sua normale ed originaria destinazione, per il cui mutamento è necessaria l’unanimità dei consensi dei partecipanti[12]. Ciò posto, non può dirsi che l’utilizzo esclusivo della cosa comune generi di per sé un danno risarcibile: tale utilizzo è ricompreso tra le facoltà spettanti al comproprietario. Ne deriva che non è possibile riconoscere agli altri comproprietari una indennità per il solo fatto dell’occupazione dell’intero bene ad opera di uno di uno soltanto di essi, in quanto tale occupazione si presume legittima perché trova comunque titolo giustificativo nella comproprietà che investe tutta la cosa comune[13]. Quanto al regime dei frutti naturali (che entrano a far parte della comunione e quindi si ripartiscono tra i partecipanti pro quota) e dei frutti civili (soggetti alla regola della divisione ipso iure e, nella comunione ereditaria, ulteriormente governati dal principio della dichiaratività della divisione ex art. 757 c.c.[14]) tratti dal bene goduto individualmente, la loro sorte sarà regolata in sede di divisione e di resa del conto[15], previa eventuale compensazione con le spese necessarie o utili per la conservazione o il miglioramento del bene comune anticipate dal comunista utilizzatore esclusivo (secondo quanto consentitogli dallo stesso art. 1102 c.c.). L’occupazione esclusiva preclusa al comproprietario e le conseguenze risarcitorie Come detto, l’uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante è sottoposto dall’art. 1102 c.c. a due limiti fondamentali, consistenti nel divieto di alterare la destinazione della cosa comune e nel divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A rendere illecito l’uso basta il mancato rispetto dell’una o dell’altra delle due condizioni[16]. L’art. 1102 c.c., in particolare, vieta la sottrazione o l’impedimento assoluto, da parte di un comproprietario, dell’esercizio delle facoltà dominicali di godimento e disposizione del bene comune spettanti agli altri contitolari[17]: (solo) se ciò si verifica, l’occupazione dell’intero immobile ad opera del comunista che l’abbia destinato ad utilizzazione personale esclusiva diviene fonte di responsabilità risarcitoria. In tal caso può ritenersi risarcibile il lucro cessante[18], con quantificazione del danno rapportabile ai frutti civili che l’autore della violazione abbia tratto dall’uso esclusivo del bene. Il godimento esclusivo, allora, si colora d’illiceità solo ove oltrepassi i limiti fissati dall’art. 1102 c.c., generando, soltanto da quel momento, un danno risarcibile. È solo la mancanza di un titolo giustificativo, infatti, che fa sorgere, in capo al comproprietario di un bene fruttifero che ne abbia goduto per l’intero, l’obbligo di corrispondere agli altri, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune, i frutti civili, che, identificandosi con il corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere a terzi secondo i correnti prezzi di mercato, possono essere individuati, in mancanza di altri più idonei criteri di valutazione, nei canoni di locazione percepibili per il cespite[19]. Il titolo giustificativo del godimento esclusivo “solitario” del bene comune viene meno, appunto, (solo) quando la destinazione di quest’ultimo venga alterata o quando venga impedito il pari uso di esso da parte degli altri partecipanti alla comunione: in questi casi si configura un vero e proprio abuso[20] della cosa comune, in contrasto con l’art. 1102 c.c., e dunque un atto illecito che legittima ciascuno dei partecipanti ad esercitare lo ius prohibendi per ottenere la cessazione della condotta illegittima, oltre che a promuovere un’azione di risarcimento del danno, inteso come effetto della diminuzione della quota o della perdita materiale del bene oggetto della comproprietà. Viceversa, l’utilizzazione esclusiva del bene comune da parte di uno dei comproprietari, ove mantenuta nei limiti di cui all’art. 1102 c.c., non è di per sé idonea a produrre alcun pregiudizio in danno degli altri comproprietari che siano rimasti inerti o abbiano acconsentito ad esso in modo certo ed inequivoco, essendo l’occupante tenuto al pagamento della corrispondente quota di frutti civili ricavabili dal godimento indiretto della cosa solo se gli altri partecipanti abbiano manifestato l’intenzione di utilizzare il bene in maniera diretta e ciò non gli sia stato concesso[21]. Un’ultima precisazione s’impone e riguarda la distinzione dell’ambito di operatività dei due commi di cui si compone l’art. 1102 c.c. Ai sensi del comma 1, l’uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante è legittimo purché egli non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, sicché il mancato rispetto dell’una o dell’altra delle due condizioni si configura come fatto illecito; la possibilità prevista dal comma 2 dell’art. 1102 c.c. di estendere all’intero il possesso della cosa comune da parte del comunista, escludendo gli altri compartecipi dal compossesso, attiene, invece, alla eventualità dell’acquisto per usucapione dei beni oggetto di comunione, effetto giuridico diverso dalla pretesa legittimità dell’uso esclusivo e protratto nel tempo dell’intera cosa comune. È evidente che l’uso della cosa comune, in quanto sottoposto ai due limiti imposti dall’art. 1102 c.c., non può estendersi all’occupazione di una parte del bene tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, all’usucapione della porzione attratta nella propria esclusiva disponibilità[22]. Il comma 2 dell’art. 1102 c.c., allora, si limita a prevedere la nuova situazione di fatto determinata dal mutamento del compossesso in possesso esclusivo ed a prospettare il possibile effetto ad essa conseguente dell’acquisto per usucapione delle quote degli altri compartecipi, ma non elide certo la portata precettiva del comma 1 dell’art. 1102 c.c., finalizzato a regolare l’uso della cosa comune tra i comproprietari. In altri termini, l’eventualità che il comportamento del comproprietario che esclude dall’uso della cosa comune gli altri partecipanti possa configurarsi come elemento idoneo all’acquisto delle quote altrui per usucapione non determina il venir meno della sua qualificazione come condotta integrativa di fatto illecito ai sensi del comma 1 dell’art. 1102 c.c. fino a quando resta in vigore il regime di comunione[23]. Una recente sentenza della seconda sezione civile della Corte di cassazione[24] consente di verificare come vivono, in concreto, i principi appena illustrati. Il giudizio origina dall’azione intentata da uno dei comproprietari di alcuni immobili (facenti parte di un compendio relitto mortis causa da un comune dante causa) per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti all’occupazione dei cespiti in comproprietà fra le parti, durata per oltre dieci anni fino allo scioglimento della comunione operato con contratto di divisione. La difesa dei convenuti è incentrata sulla prospettazione di una rinuncia all’indennità di occupazione che la parte attrice avrebbe operato in sede di stipula del contratto preliminare di divisione, mercé l’inserimento di una clausola escludente la debenza tra le parti di alcun conguaglio in denaro, insussistenza poi ribadita dai condividenti nell’atto di divisione. Nei gradi di merito, Tribunale e Corte d’Appello hanno ritenuto irrilevanti tali pattuizioni (considerate come rinuncia ai soli conguagli delle differenze di valore tra le quote e non anche come rinuncia all’indennità di occupazione) e, una volta stimata l’indennità sulla base del valore locativo del compendio immobiliare, hanno accolto la domanda attorea, condannando i convenuti al pagamento di una cospicua somma di denaro. A fondamento della condanna viene posto l’incontestato utilizzo esclusivo del compendio ereditario da parte dei convenuti, che si sono difesi unicamente deducendo di non aver mai negato alla parte attrice il godimento dei beni ereditari, senza però provare la circostanza della effettiva “messa a disposizione” dell’immobile (ad esempio, mediante invito al ritiro delle relative chiavi d’accesso), nonostante la documentata richiesta avanzata dalla parte attrice di poter godere dei frutti civili del bene. I soccombenti ricorrono per cassazione contro la sentenza della Corte d’Appello e, tra i motivi di ricorso, spiccano quelli inerenti al tema segnalato in apertura ed incentrati sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1102 c.c. La Suprema Corte accoglie il ricorso, ritenendo - in applicazione dei principi interpretativi inerenti all’art. 1102 c.c. innanzi passati in rassegna - che non valga a dimostrare automaticamente una condotta illecita la circostanza della utilizzazione esclusiva del bene comune da parte di alcuni dei comproprietari, anche se connotata dalla mancata “messa a disposizione” dell’immobile o dal mancato invito a ritirarne le chiavi, occorrendo a tal fine l’accertamento - non operato dai giudici di primo e secondo grado, ai quali ultimi la causa viene rinviata affinché vi procedano - della violazione dei limiti di liceità dell’uso della cosa comune di cui alla norma codicistica da ultimo richiamata. _____________________________ [1] A. Fedele, La comunione, Torino, 1986, 98.[2] G. Branca, Comunione, Condominio negli edifici, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, Libro III, Della proprietà, sub artt. 1110-1139, 1982, 89, secondo cui la facoltà di uso della cosa comune non è proporzionata alla quota, bensì è tanto ampia quanto quella che si estenda su un bene esclusivo. [3] Cass., Sez. VI-2, 28 gennaio 2015, n. 1650. [4] R. Favale, La comunione ordinaria, Milano, 1997, 149. [5] In tali termini, Cass., Sez. VI-2, 23 giugno 2017, n. 15705; in precedenza, in senso analogo, Cass., Sez. II, 14 aprile 2015, n. 7466. [6] Così, da ultimo, Cass., Sez. II, 12 marzo 2019, n. 7019. [7] In tali termini, Cass., Sez. II, 6 marzo 2019, n. 6458, nell’affine materia condominiale, nella quale pure trova applicazione l’art. 1102 c.c., in virtù del rinvio contenuto nell’art. 1139 c.c. (Cass., Sez. II, Sez. 2, 30 maggio 2003, n. 8808), proprio in mancanza di una disciplina specifica dell’uso individuale della cosa comune in ambito condominiale. [8] Così, da ultimo, Cass., Sez. II, 21 febbraio 2019, n. 5132; Cass., Sez. II, 16 gennaio 2013, n. 944. [9] Cass., Sez. II, 15 luglio 1994, n. 7752. [10] A. Lener, La comunione, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, 8, II, Torino, 1982, 307. [11] In tal senso, Cass., Sez. II, 3 luglio 2000, n. 8886. L’utilizzazione della cosa comune, di regola espressa dall’uso “normale”, come praticato dalla generalità degli utenti, può, in realtà, avvenire da parte di uno o più dei partecipanti anche in modo particolare e diverso da quello degli altri, senza sconfinare in abuso, sempreché la “destinazione” della cosa resti rispettata. Si è detto, ad esempio, che la destinazione (diversa) da quella in atto può anche essere ritenuta “normale” qualora debba intendersi ricompresa tra quelle, magari implicitamente, oggetto di volontà comune dei condomini, la cui individuazione costituisce quaestio voluntatis (in tali termini, Cass., Sez. II, 21 maggio 1990, n. 4566). In dottrina, M. De Tilla, Sull’uso della cosa comune, in Arch. locaz., 2001, 246. [12] In tal senso, di recente, Cass., Sez. VI-2, 23 giugno 2017, n. 15705. [13] Anche quando nelle pronunce della Cassazione si legge che il danno è da ritenersi in re ipsa, in realtà di fa sempre riferimento ad ipotesi in cui certamente uno dei comunisti utilizzi il bene quale esclusivo possessore, ma, si aggiunge, impedendo agli altri di godere, anche in via potenziale e per la propria quota, del bene comune (così Cass., Sez. II, 10 gennaio 2019, n. 468; Cass, Sez. II, 6 aprile 2011, n. 7881, che richiama Cass., Sez. II, 12 maggio 2010, n. 11486; nello stesso senso Cass., Sez. II, 7 agosto 2012, n. 14213). [14] L’effetto “dichiarativo-retroattivo” della divisione ereditaria, che l’art. 1116 c.c. estende al rapporto fra comproprietari che non sono coeredi, comporta che ciascun condividente sia considerato titolare ex tunc, e cioè fin dall’apertura della successione, dei beni assegnatigli (così, di recente, Cass., Sez. II, 7 novembre 2017, n. 26351). Secondo la Cassazione, in particolare, un coerede, il quale, dopo la morte del de cuius, trattenga il possesso di un bene ereditario, esercita legittimamente i poteri spettanti al comproprietario, pur ove utilizzi ed amministri individualmente il bene stesso, a meno che il rapporto materiale instaurato con la res non si svolga in maniera tale da escludere gli altri coeredi (in questi termini, Cass., Sez. II, 4 maggio 2018, n. 10734, secondo cui il coerede che, dopo la morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, anche usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso: egli, infatti, a tal fine, già possiede animo proprio ed a titolo di comproprietà, ed è solo tenuto, ai fini della suddetta usucapione, ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus; in senso analogo, Cass., Sez. VI-2, 19 ottobre 2017, n. 24781; Cass., Sez. II, 10 novembre 2011, n. 23539. [15] In particolare, i comproprietari che abbiano gestito insieme il bene comune sono obbligati a rendere il conto al comproprietario non gestore e a restituirgli la sua quota di frutti in regime di solidarietà passiva, essendo unitaria sia la causa obligandi, sia la res debita (così Cass., Sez. II, 2 marzo 2015, n. 4162). [16] Cass., Sez. II, n. 7752/1995. [17] Peraltro, vale la pena notare che l’art. 1102 c.c. non pone alcun margine minimo di tempo e di spazio per l’operatività delle limitazioni del predetto uso: è stato, ad esempio, considerato integrare un abuso anche l’occupazione per pochi minuti di una porzione del cortile comune, ove comunque impedisca agli altri condomini di partecipare al godimento dello spazio oggetto di comproprietà (Cass., Sez. II, 18 marzo 2019, n. 7618). [18] Secondo Cass., Sez. II, 7 agosto 2012, n. 14213, nell’ipotesi di sottrazione delle facoltà dominicali di godimento e disposizione del bene, è risarcibile, sotto l’aspetto del lucro cessante, non solo il lucro interrotto, ma anche quello impedito nel suo potenziale esplicarsi, ancorché derivabile da un uso della cosa diverso da quello tipico (nello stesso senso Cass., Sez. II, 3 maggio 2019, n. 11731). Peraltro, si è precisato, mentre il danno patrimoniale per il lucro interrotto è da ritenere in re ipsa, non altrettanto è da dirsi in relazione al danno non patrimoniale, quale disagio psico-fisico conseguente alla mancata utilizzazione di un’area comune condominiale, potendosi ammettere il ristoro di tale ultima posta risarcitoria solo in conseguenza della lesione di interessi della persona di rango costituzionale o nei casi espressamente previsti dalla legge, ai sensi dell’art. 2059 c.c., e sempre che si tratti di una lesione grave e di un pregiudizio non futile (così Cass., Sez. VI-2, 4 luglio 2018, n. 17460). [19] In questi termini, Cass., Sez. II, 6 aprile 2011, n. 7881 e Cass., Sez. II, 19 marzo 2019, n. 7681. I frutti civili, dovuti dal comproprietario che abbia utilizzato, in via esclusiva, un bene rientrante nella comunione, hanno, ai sensi dell’art. 820, comma 3, c.c. la funzione di corrispettivo del godimento della cosa (Cass., Sez. II, 5 aprile 2012, n. 5504). Cass., Sez. II, 5 settembre 2013, n. 20394 esclude l’applicabilità dell’art. 1148 c.c., che disciplina il diverso caso della sorte dei frutti naturali o civili percepiti dal possessore di buona fede tenuto a restituire la cosa al rivendicante: l’art. 1148 c.c., in particolare, regola l’attribuzione dei frutti nel conflitto esterno tra possessore in buona fede e proprietario, e dunque non può operare per disciplinare il diverso problema della ripartizione interna fra più comproprietari dei frutti ritratti o ritraibili dalla cosa comune. [20] Di abuso della propria situazione giuridica discorre, ad esempio, Cass., Sez. II, 12 settembre 1970, n. 1388. [21] In questi termini, Cass., Sez. II, 9 febbraio 2015, n. 2423; Cass., Sez. II, 3 dicembre 2010, n. 24647; Cass., Sez. II, 4 dicembre 1991, n. 13036. Secondo le ultime due sentenze citate, se la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l’uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento; peraltro fino a quando non vi sia richiesta di un uso turnario da parte degli altri comproprietari, il semplice godimento esclusivo ad opera di taluni non può assumere la idoneità a produrre un qualche pregiudizio in danno di coloro che abbiano mostrato acquiescenza all’altrui uso esclusivo, salvo che non risulti provato che i comproprietari che hanno avuto l’uso esclusivo del bene ne abbiano tratto anche un vantaggio patrimoniale. [22] Cass., Sez. II, 4 marzo 2015, n. 4372. [23] In tal senso, Cass., Sez. II, 12 settembre 2003, n. 13424. [24] Cass. 12 marzo 2019, n. 7019.
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