Fideiussioni: il consumatore anche con un titolo esecutivo può eccepire l’abusività di clausole
Il Tribunale di Milano con provvedimento del 31/10/2019 depositato presso il registro della Corte di Giustizia Europea in data 14 novembre 2019 N. C-831/19 ha mosso le seguenti questioni pregiudiziali in un procedimento esecutivo il cui titolo non è stato opposto costituendo pertanto un giudicato esplicito ed implicito, e chiedendo alla CGUE: a) “Se ed a quali condizioni il combinato disposto degli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea osti ad un ordinamento nazionale, come quello delineato, che preclude al giudice dell’esecuzione di effettuare un sindacato intrinseco di un titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato, allorquando il consumatore, avuta consapevolezza del proprio status (consapevolezza precedentemente preclusa dal diritto vivente), richieda di effettuare un simile sindacato. b) “Se ed a quali condizioni il combinato disposto degli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea osti ad un ordinamento come quello nazionale che, a fronte di un giudicato implicito sulla mancata vessatorietà di una clausola contrattuale, preclude al giudice dell’esecuzione, chiamato a decidere su un’opposizione all’esecuzione proposta dal consumatore, di rilevare una simile vessatorietà e se una simile preclusione possa ritenersi esistente anche ove, in relazione al diritto vivente vigente al momento della formazione del giudicato, la valutazione della vessatorietà della clausola era preclusa dalla non qualifìcabilità del fideiussore come consumatore. E ciò ai sensi dell’art. 33, co. 1, d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (c.d. “codice del consumo”) che contiene la vigente disciplina nazionale di trasposizione dell’art. 3.1 della direttiva 93/13/CEE: “Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”. Tribunale di Milano, rimessione alla CGUE 31 ottobre 2019 Rimessione alla Corte di Giustizia Europea Il Tribunale di Milano con provvedimento del 31 ottobre 2019 e depositato presso la Corte di Giustizia Europea in data 14 novembre 2019 Causa C- 831/19 a seguito di una procedura esecutiva di 4 banche fondata su decreto ingiuntivo non opposto in favore delle medesime Banche procedenti e nei confronti sia della debitrice principale società e sia dei fideiussori persone fisiche. Il fatto Il giudice dell’esecuzione, nell’escludere la qualifìcabilità come consumatore di un socio persona fisica al 51% nonché legale rappresentante della debitrice principale società ...s.r.l, ha tuttavia rilevato la possibile qualifìcabilità come consumatore del fideiussore di altra persona fisica socia “la quale risulta socia al 22% della debitrice principale e non risulta aver mai assunto cariche sociali nell’ambito della debitrice principale” e, richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia nei procedimenti Asturcom, Finanmadrid e Banco Primus. Del resto il semplice “socio fideiussore” ha elencato le numerose clausole (contenute nei contratti di fideiussione conclusi con tutti i creditori muniti di titolo esecutivo nei propri confronti) la cui vessatorietà è da valutarsi anche alla luce della citata decisione della Corte di giustizia, 14 marzo 2013, C-415/1 l,Aziz. La banca creditrice ha contestato sia la possibilità di qualificare la sola socia come consumatore, avuto riguardo alla titolarità - da parte della stessa - di una partecipazione nella debitrice principale pari al 22% (dalla quale può discendere il diritto al percepimento di utili di impresa tali da costituire anche l’unico reddito della debitrice) ed al vincolo coniugale esistente tra tale fideiussore ed il legale rappresentante della debitrice principale, nonché, ha inoltre eccepito la possibilità di superare il giudicato da parte del “Giudice dell’Esecuzione a cui è impedito il sindacato su un titolo esecutivo formalmente corretto e definitivo, avente efficacia di giudicato, quale è un decreto ingiuntivo non opposto”. A sostengo della tesi della parte fideiussoria, l’art. 33, co. 1, d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (c.d. “codice del consumo”) che contiene la vigente disciplina nazionale di trasposizione dell’art. 3.1 della direttiva 93/13/CEE: “Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”. Le clausole ivi elencate sono da ricondurre a quelle contemplate all’art. 33, co. 2, lettere t) ed u) del codice del consumo in cui è disposto che: “Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di..: t) sancire a carico del consumatore decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni, deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria, limitazioni all’adduzione di prove, inversioni o modificazioni dell’onere della prova, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi; u) stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore’'’ (cfr. art. 3.3 della direttiva 93/13/CEE e la lett. q) dell’allegato alla medesima direttiva)”. L’art. 36 del codice del consumo (conformemente all’art. 6 della direttiva 93/13/CEE), al primo comma, così dispone: “Le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 33 e 34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto”. Il comma 3 del medesimo articolo prevede inoltre che la nullità delle clausole vessatorie “opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”. Ai sensi dell’art. 7.1 della direttiva 93/13/CEE “Gli Stati membri, nell’interesse dei consumatori e dei concorrenti professionali, provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori”. L’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea prevede che: “Ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare (...)”. Ai sensi dell’art. 19.1 secondo periodo TUE: “Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione”. Il Tribunale di Milano ha evidenziato che sia le norme del codice di procedura civile che disciplinano l’esecuzione, e sia l’effetto dell’art. 2909 c.c., non chiariscono l’oggetto dell’accertamento giudiziale: “L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. L’art. 324 c.p.c., invece, dispone che “s’intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai nn. 4 e 5 dell’art. 395”, non consentirebbero di scalfire il titolo passato in giudicato. Secondo la giurisprudenza di legittimità assolutamente maggioritaria “l’autorità del giudicato spiega i suoi effetti non solo sulla pronuncia esplicita della decisione, ma anche sulle ragioni che ne costituiscono, sia pure implicitamente, il presupposto logico-giuridico”’, tale orientamento “trova applicazione anche in riferimento al decreto ingiuntivo di condanna al pagamento di una somma di denaro, il quale, ove non sia proposta opposizione, acquista efficacia di giudicato non solo in ordine al credito azionato, ma anche in relazione al titolo posto a fondamento dello stesso, precludendo in tal modo ogni ulteriore esame delle ragioni addotte a giustificazione della relativa domanda” (Cass. Civ., 28 novembre 2017, n. 28318, che richiama anche le conformi decisioni Cass. Civ. 28 agosto 2009, n. 18791 e Cass. Civ. 06 settembre 2007, n. 18725; nello stesso senso, tra le altre, Cass. Civ. 24 settembre 2018, n. 22465, Cass. Civ. 26 giugno 2015, n. 13207). Risulta quindi accolto, con riferimento al decreto ingiuntivo non opposto, il principio -di creazione giurisprudenziale- del c.d. “giudicato implicito”, fondato sull’argomento logico per il quale se il giudice si è pronunciato su una determinata questione ha, evidentemente, risolto in senso non ostativo tutte le altre questioni da considerare preliminari rispetto a quella esplicitamente decisa (tra le altre, Cass. Civ., Sez. unite, 12 dicembre 2014, n. 26242). Nell’ambito del procedimento di espropriazione il giudice dell’esecuzione esercita poteri ordinatori, “limitati alla direzione del processo esecutivo al fine del regolare compimento degli atti che lo compongono secondo criteri di celerità ed opportunità; con esclusione, quindi, di potestas decidendo (Cass. Civ., 12 giugno 1971, n. 1819). La stessa decisione, nell’escludere un incondizionato accoglimento del principio del giudicato implicito sul dedotto e deducibile, ha anche osservato come correttivo fondamentale di tale opzione ermeneutica vada ricercato, "tra l’altro (e non solo)", nel dovere, per il giudice, di rilevare una causa di nullità negoziale, sottoponendo la relativa questione alle parti, senza limiti derivanti da eventuali preclusioni processuali e, per quanto qui interessa, ha concluso che, in caso di mancata rilevazione ex officio della nullità, il giudice accoglierà la domanda (di adempimento, risoluzione, rescissione, annullamento) con una pronuncia che "è idonea alla formazione del giudicato implicito della validità del negozio (salva la rilevazione officiosa del giudice di appello)". Con riferimento ai poteri esercitabili d’ufficio dal giudice dell’esecuzione occorre rilevare come, secondo quanto costantemente affermato dalla Suprema Corte, 1’esistenza di un valido titolo esecutivo costituisca condizione dell’azione esecutiva (tra le tante, Cass. Civ., Sez. unite, 28 novembre 2012, n. 21110); il titolo esecutivo deve pertanto permanere per l’intera durata dell’espropriazione, destinata altrimenti a divenire improcedibile (tra le tante, Cass. Civ., Sez. unite, 28 novembre 2012, n. 21110, Cass. Civ. 6 agosto 2002, n. 11769, Cass. Civ. 24 maggio 2002, n. 7631). In conseguenza del principio espresso dal brocardo “nulla executio sine titulo” il giudice dell’esecuzione è quindi titolare del potere-dovere di verificare 1’esistenza del titolo esecutivo all’inizio e per l’intera durata del processo esecutivo, dovendo, ove tale titolo difetti, arrestare il processo (tra le tante, Cass. Civ. 16 aprile 2013, n. 9161, Cass. Civ. 28 luglio 2011, n. 16541, Cass. Civ. 6 agosto 2002, n. 11769). Il potere officioso del giudice dell’esecuzione è tuttavia limitato alla sola esistenza del titolo esecutivo e non può estendersi anche al “contenuto intrinseco” dello stesso, sì da invalidarne l’efficacia in base ad eccezioni che possono e devono essere dedotte nel giudizio di cognizione (in caso di decreto ingiuntivo, mediante proposizione dell’opposizione allo stesso decreto). Un simile controllo “intrinseco” del titolo giudiziale è precluso anche in caso di opposizione proposta, ai sensi dell’art. 615, co. 2, c.p.c.6, dal debitore; secondo costante giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, “nel giudizio di opposizione all’esecuzione promossa in base a titolo esecutivo di formazione giudiziale, la contestazione del diritto di procedere ad esecuzione forzata può essere fondata su vizi di formazione del provvedimento solo quando questi ne determinino l’inesistenza giuridica, atteso che gli altri vizi e le ragioni di ingiustizia della decisione possono essere fatti valere, ove ancora possibile, solo nel corso del processo in cui il titolo è stato emesso, spettando la cognizione di ogni questione di merito al giudice naturale della causa in cui la controversia tra le parti ha avuto (o sta avendo) pieno sviluppo ed è stata (od è tuttora) in esame’'’ (Cass. Civ. 18 febbraio 2015, n. 3277, conforme, tra le tante, Cass. Civ. 21 aprile 2011, n. 9205). La Corte di giustizia, 14 settembre 2016, C-534/15, Dumitras e la Corte di giustizia, 19 novembre 2015, C-74/15, Tarcàu hanno successivamente ritenuto che: “Gli articoli 1, paragrafo 1, e 2, lettera b), della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che tale direttiva si applica a un contratto di garanzia immobiliare stipulato tra persone fìsiche e un ente creditizio al fine di garantire le obbligazioni che una società commerciale ha contratto nei confronti di detto ente in base a un contratto di credito, quando tali persone fìsiche hanno agito per scopi che esulano dalla loro attività professionale e non hanno alcun collegamento di natura funzionale con la suddetta società, circostanze queste che spetta al giudice del rinvio verificare”. Un simile orientamento è stato di recente accolto anche dalla Corte di cassazione italiana; con la sentenza 13 dicembre 2018, n. 32225 la Suprema Corte ha infatti ritenuto che: i “requisiti soggettivi di applicabilità della disciplina legislativa consumeristica in relazione ad un contratto di fideiussione stipulato da un socio in favore della società devono essere valutati con riferimento alle parti dello stesso (e non già del distinto contratto principale), dando rilievo - alla stregua della giurisprudenza comunitaria - all’entità della partecipazione al capitale sociale nonché all’eventuale qualità di amministratore della società garantita assunto dal fideiussore’'). Occorre tuttavia sottolineare che, prima della decisione da ultimo citata, la giurisprudenza di legittimità, in modo costante, aveva ritenuto che, in presenza di un contratto di fideiussione, il requisito soggettivo della qualità di consumatore andasse riferito all’obbligazione garantita, considerata l’accessorietà dell’obbligazione del fideiussore rispetto all’obbligazione garantita; in questo senso, tra le altre, Cass. Civ. 09.08.2016, n. 16827, Cass. Civ. 29.11.2011, n. 25212, Cass. Civ. 13.05.2005, n. 10107. La Corte di giustizia (decisione 16 dicembre 1976, C-33/76, Rewe) ha affermato che le regole nazionali in materia di tutela processuale delle situazioni soggettive di origine comunitaria non possono essere meno favorevoli di quelle preposte alla tutela di analoghe situazioni soggettive fondate su norme nazionali (c.d. “principio di equivalenza”) e non possono rendere, in pratica, impossibile l’esercizio di diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare (c.d. “principio di effettività'”). Con la decisione 15 maggio 1986, C-222/84, Johnston, la Corte di giustizia ha ravvisato nel principio di effettività, sancito anche dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, un “principio giuridico generale su cui sono basate le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”. Tale principio, successivamente anche codificato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 47), è stato progressivamente ampliato nella propria portata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Risulta così delineato un obbligo di funzionalizzazione del diritto processuale interno al fine di garantire piena effettività al diritto sostanziale dell’Unione che ha trovato frequente affermazione anche nella materia consumeristica. La giurisprudenza della Corte di giustizia sui doveri del giudice in materia di tutela del consumatore Quella che, nella sentenza del 27 giugno 2000, cause riunite da C-240/98 a C-244/98, era, per il giudice, una mera facoltà è divenuta, con la sentenza della Corte del 4 giugno 2009, C-243/08, Pannon GSM Zrt, un vero e proprio dovere di esame officioso della abusività della clausola a partire dal momento in cui il giudice disponga “degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine” (e ferma la necessità di acquisire la manifestazione di volontà del consumatore di avvalersi della natura abusiva e non vincolante della clausola). Dovere che risulta coerente con il compito del giudice di garantire l’”effetto utile” della tutela cui mirano le disposizioni della direttiva 93/13/CEE la quale costituisce “un provvedimento indispensabile per l’adempimento dei compiti affidati alla Comunità e, in particolare, per l’innalzamento del livello e della qualità della vita al suo interno” (Corte di giustizia, 26 ottobre 2006, C-l68/05, Mostaza Claro). Del resto, la decisione da ultimo citata ha anche osservato che l’art. 6, n. 1 della direttiva è “una norma imperativa che, in considerazione dell’inferiorità di una delle parti contrattuali, mira a sostituire all’equilibrio formale che il contratto determina fra i diritti e gli obblighi delle parti un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l’uguaglianza delle parti stesse” e che: “La natura e l’importanza dell’interesse pubblico su cui si fonda la tutela che la direttiva garantisce ai consumatori giustificano inoltre che il giudice nazionale sia tenuto a valutare d’ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale, in tal modo ponendo un argine allo squilibrio che esiste tra il consumatore e il professionista” (nello stesso senso, tra le altre, Corte di giustizia, 14 marzo 2013, C-415/11, Aziz). La rilevanza dell’interesse alla base della tutela assicurata dalla direttiva 93/13/CEE al consumatore è stata del resto ulteriormente e ripetutamente confermata anche da quelle decisioni con le quali la Corte, nella prospettiva del principio di equivalenza, ha assimilato l’art. 6 della direttiva 93/13/CEE alle norme nazionali d’ordine pubblico (tra le tante, Corte di giustizia, 21 dicembre 2016, cause riunite C-l54/15, C-307/15 e C-308/15, Francisco Gutiérrez Naranjo, Corte di giustizia, 30 maggio 2013, C-488/11, Dirk Frederik Asbeek Brusse, Katarina de Man Garabito, Corte di giustizia, 6 ottobre 2009, C-40/08, Asturcom). La giurisprudenza della Corte di giustizia sulla superabilità del giudicato Già con la decisione 1 giugno 1999, C-l26/97, Eco Swiss, la Corte di giustizia ha affermato che il diritto comunitario non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme (poste a presidio del principio della certezza del diritto) disciplinanti la formazione della cosa giudicata anche ove una simile disapplicazione consentirebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con tale diritto (in senso analogo, più di recente, anche Corte di giustizia, 10 luglio 2014, C-213/13, Impresa Pizzarotti & C. SpA; Corte di giustizia, 3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento Olimpiclub). La rilevanza del giudicato nella prospettiva tanto della stabilità del diritto e dei rapporti giuridici quanto della buona amministrazione della giustizia è del resto stata in più occasioni ribadita dalla Corte (tra le altre, Corte di giustizia, 10 luglio 2014, C-213/13, Impresa Pizzarotti & C. SpA; Corte di giustizia, 16 marzo 2006, C-234/04, Kapferer). Con riferimento alla tutela del consumatore la Corte di giustizia ha peraltro adottato decisioni che, sia pure a determinate condizioni, hanno ammesso la superabilità del giudicato. Nella decisione del 6 ottobre 2009, C-40/08, Asturcom la Corte ha escluso che, in applicazione del principio di effettività della tutela, il giudice investito di una domanda di esecuzione forzata di un lodo arbitrale non impugnato e formatosi all’esito di procedimento al quale il consumatore non ha partecipato, possa rilevare d’ufficio la vessatorietà di una clausola contrattuale (nella specie, la clausola con la quale era individuata la sede dell’ente arbitrale). Peraltro, nella stessa sentenza, la Corte ha comunque ritenuto superabile il giudicato sulla base del principio di equivalenza ed ha quindi affermato che:“qualora un giudice nazionale investito di una domanda per l’esecuzione forzata di un lodo arbitrale definitivo debba, secondo le norme procedurali interne, valutare d’ufficio la contrarietà di una clausola compromissoria con le norme nazionali d’ordine pubblico, egli è parimenti tenuto a valutare d’ufficio il carattere abusivo di detta clausola alla luce dell’art. 6della direttiva 93/13". Con la sentenza 18 febbraio 2016, C-49/14, Finanmadrid EFC SA, la Corte (chiamata a decidere sulla domanda formulata dal giudice richiesto di emettere l’ordine di esecuzione relativamente ad una ingiunzione di pagamento emessa - sulla base di un contratto contenente clausole vessatorie- dal “Secretano judicial” -ed in assenza di intervento di un giudice- secondo la disciplina al tempo vigente in Spagna), ha ritenuto in contrasto con il principio di effettività della tutela prevista dalla direttiva 93/13/CEE la disciplina processuale nazionale che non consenta, nell’ambito del procedimento d’ingiunzione di pagamento o di quello di esecuzione dell’ingiunzione di pagamento, un controllo d’ufficio della potenziale natura abusiva delle clausole inserite nel contratto dal quale deriva il credito portato dall’ingiunzione. Con la sentenza 26 gennaio 2017, C-421/14, Banco Primus SA la Corte di giustizia ha escluso che, sulla base della direttiva 93/13/CEE, il giudice nazionale possa riesaminare d’ufficio il carattere abusivo delle clausole di un contratto qualora la legittimità (sulla base della citata direttiva) di tutte le clausole contrattuali sia già stata accertata con decisione passata in giudicato ed ha invece affermato che “in presenza di una o di più clausole contrattuali la cui eventuale abusività non sia stata ancora esaminata nell’ambito di un precedente controllo giurisdizionale del contratto controverso terminato con una decisione munita di autorità di cosa giudicata, la direttiva 93/13 deve essere interpretata nel senso che il giudice nazionale, regolarmente adito dal consumatore mediante un’opposizione incidentale, è tenuto a valutare, su istanza delle parti o d’ufficio qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, l’eventuale abusìvità di tali clausole”. Ove risultasse precluso un simile controllo, infatti, la tutela del consumatore sarebbe “incompleta ed insufficiente e costituirebbe un mezzo inadeguato ed inefficace per far cessare l’utilizzo di questo tipo di clausole, contrariamente a quanto disposto all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13” (così la decisione da ultimo citata). I motivi del rinvio pregiudiziale del Tribunale di Milano Il giudice rimettente, premessa la qualifìcabilità, allo stato, del socio persona fisica non aveva alcun collegamento di natura funzionale con la debitrice principale come consumatore, dubita, innanzi tutto, della conformità dell’art. 16 del contratto di fideiussione concluso tra la banca ed il fideiussore con l’art. 33, co. 2, lett. u) del codice del consumo (cfr. art. 3.3 della direttiva 93/13/CEE e la lett. q) dell’allegato alla medesima direttiva). Il Giudice remittente si chiede pertanto se, nella situazione in concreto ricorrente, un diritto vivente quale quello descritto possa costituire un elemento idoneo a rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti al consumatore attribuiti dalla disciplina nazionale di recepimento della direttiva 93/13/CEE e se l’esigenza di assicurare una tutela effettiva al debitore consenta, sulla base degli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE letti alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, di effettuare un sindacato sulla vessatorietà delle clausole di un contratto in base al quale è stato ottenuto un decreto ingiuntivo, pur avendo il decreto ingiuntivo ormai acquisito efficacia di giudicato per mancata opposizione. Avuto riguardo ai principi processuali nazionali sopra citati deve ritenersi che la mancata vessatorietà delle clausole pattuite nel contratto di fideiussione sia, in conseguenza della mancata opposizione al decreto ingiuntivo, oggetto di giudicato implicito; ne discenderebbe, tra l’altro, per un verso, la mancata possibilità di far valere la vessatorietà delle clausole in un giudizio di merito e, per altro verso, l’inammissibilità (alla stregua del principio di equivalenza quale corollario del principio di autonomia processuale degli Stati) dell’opposizione all’esecuzione in quanto fondata su motivi che la parte avrebbe dovuto proporre in sede di formazione del titolo esecutivo giudiziale (e, pertanto, con riferimento al caso concreto, in sede di opposizione al decreto ingiuntivo). Nutrendo perplessità il Giudice remittente in ordine alla compatibilità di un simile risultato con il diritto dell’Unione. Con la sentenza 26 gennaio 2017, C-421/14 (nel quale l’esecuzione era stata instaurata sulla base di un titolo negoziale, e non -come nel presente caso- giudiziale), la Corte di giustizia ha escluso la contrarietà della disciplina nazionale in concreto rilevante nel procedimento con la direttiva 93/13/CEE. Con la stessa decisione la Corte ha tuttavia anche affermato che: “in presenza di una o di più clausole contrattuali la cui eventuale abusìvità non sia ancora stata esaminata nell’ambito di un precedente controllo giurisdizionale del contratto controverso terminato con una decisione munita di autorità di cosa giudicata, la direttiva 93/13 deve essere interpretata nel senso che il giudice nazionale, regolarmente adito dal consumatore mediante un’opposizione incidentale, è tenuto a valutare, su istanza delle parti o d’ufficio qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, l’eventuale abusìvità di tali clausole” per far cessare l’utilizzo di questo tipo di clausole, contrariamente a quanto disposto all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13. Secondo il giudice milanese remittente la decisione dalla Corte resa nel procedimento Banco Primus ha escluso la superabilità del giudicato esplicito, ma non ha esaminato la compatibilità degli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, con un istituto quale quello del giudicato implicito sopra descritto. Il Tribunale rimettente si chiede, in altri termini, se le esigenze di certezza delle situazioni giuridiche che sono alla base del giudicato siano tali da produrre medesimi effetti, in termini di stabilità della decisione, tanto in caso di giudicato esplicito, quanto in caso di giudicato implicito, ovvero se gli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE, letti alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, consentano il superamento del giudicato implicito allorquando la decisione passata in giudicato (implicito) sia manifestamente in contrasto con il diritto ad un rimedio effettivo. Avuto riguardo al diritto vivente al tempo in vigore, è infatti assai verosimile che, nell’emettere il decreto ingiuntivo richiesto, il giudice non abbia in alcun modo svolto l’indagine relativa alla vessatorietà delle clausole (così non esercitando la fondamentale funzione di riequilibrio -anche- processuale dei rapporti tra imprenditore e consumatore sopra citata), escludendo a priori la possibilità di qualificare il fideiussore come consumatore. Del resto proprio il carattere non manifesto dell’iter logico concretamente fatto proprio dal giudice ed i possibili profili di incertezza in ordine all’oggetto di una decisione comunque suscettibile di acquisire la forza del giudicato possono comportare un pregiudizio al diritto alla tutela effettiva del debitore cui (anche nella prospettiva dell’impugnazione) potrebbe essere preclusa la percezione dell’effettiva portata della decisione. Ebbene, in un caso del genere, il giudice si chiede se il diritto ad una tutela effettiva derivante dagli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE letti in combinato disposto con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea consenta al consumatore di contestare, mediante un’opposizione all’esecuzione, il contenuto intrinseco di una decisione giudiziale che, pur non avendo esplicitamente statuito sulla natura vessatoria delle clausole contenute in un contratto, sia ormai passata in giudicato. Il Tribunale così provvede: 1) rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione europea le seguenti questioni pregiudiziali: a) “Se ed a quali condizioni il combinato disposto degli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea osti ad un ordinamento nazionale, come quello delineato, che preclude al giudice dell’esecuzione di effettuare un sindacato intrinseco di un titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato, allorquando il consumatore, avuta consapevolezza del proprio status (consapevolezza precedentemente preclusa dal diritto vivente), richieda di effettuare un simile sindacato b) “Se ed a quali condizioni il combinato disposto degli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE e dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea osti ad un ordinamento come quello nazionale che, a fronte di un giudicato implicito sulla mancata vessatorietà di una clausola contrattuale, preclude al giudice dell’esecuzione, chiamato a decidere su un’opposizione all’esecuzione proposta dal consumatore, di rilevare una simile vessatorietà e se una simile preclusione possa ritenersi esistente anche ove, in relazione al diritto vivente vigente al momento della formazione del giudicato, la valutazione della vessatorietà della clausola era preclusa dalla non qualifìcabilità del fideiussore come consumatore.
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