Il cane randagio causa un sinistro - l'ASL ne risponde
La responsabilità civile per i danni causati dai cani randagi deve ricadere sull'ente o sugli enti cui è attribuito dalla legge il dovere di prevenire il pericolo specifico per l'incolumità della popolazione, ossia il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi, non a quelli cui sono attribuiti generici compiti di prevenzione del randagismo. Questo principio viene applicato per la liquidazione dei danni derivati da un sinistro causato da un animale randagio. A confermare il suddetto orientamento è la Cassazione con ordinanza 10 settembre 2019, n. 22522.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI:
Conformi:
Cass. civ. sez. III, 23 agosto 2011, n. 17528
Cass. sez. III, 20 giugno 2017 n. 15167
Cass. 27 marzo 2009, n. 7544
Difformi:
Non si rinvengono precedenti
La sentenza in commento chiude un lungo iter processuale, iniziato nel 2010 dal Giudice di Pace ed arrivato fino in Cassazione. Tutti i giudici interessati giungono alla medesima conclusione: del sinistro causato dall'animale randagio doveva rispondere l'ASL localmente competente. Questo, in forza della previsione della legge regionale applicabile (quella della Regione Campania), che attribuisce a tale ente obblighi di sorveglianza sugli animali randagi e di intervento per la cattura dei randagi.
L'ASL, ricorrendo in cassazione, sostiene che, in base al quadro normativo, costituito dalla legge quadro nazionale e da quella regionale, non ci sarebbe un obbligo per la ASL di controllo continuo del territorio comunale ma solo un obbligo specifico di intervento per la cattura dell'animale randagio a seguito di segnalazione.
Al di là della questione contingente, che si conclude, come vedremo tra breve, con il rigetto del ricorso, il problema degli incidenti causati dagli animali è più rilevante di quanto si possa credere e le soluzioni cambiano notevolmente, a seconda che si tratti di animale che ha un padrone o di un randagio.
Se si tratta di un animale domestico, con un padrone, il suo proprietario, ai sensi dell'art. 2052 c.c., risponde dei danni da esso causati. Tale norma pone una presunzione di responsabilità in capo al proprietario dell'animale, che è tenuto a fornire la prova liberatoria del caso fortuito.
La questione cambia se il cane non ha un padrone, come nel caso di specie. Il randagismo è un problema molto grave, soprattutto in alcune aree geografiche. Come precisa il sito del Ministero della Salute, “Il numero di randagi oscilla tra i 500 mila e i 700 mila. "Nella maggior parte dei casi - ha evidenziato Cardinale - un cane randagio è un cane che è stato abbandonato. La ‘maglia nera' in questo caso spetta alla Campania", dove ci sono circa 66.500 cani randagi, contro, ad esempio, i 500 della Toscana”.
Chiaro che, con numeri simili, l'ipotesi di un danno causato da un cane randagio (o da un gatto randagio, i cui numeri sono ancora superiori) non è così remota.
La materia è disciplinata a livello nazionale dalla legge-quadro 14 agosto 1991, n. 281, che ha demandato alle Regioni l'approvazione della disciplina esecutiva. Prima di addentrarci nell'esame della legislazione regionale, tuttavia, è bene soffermarsi sul decreto legislativo n. 502 del 1992, che riformò il Servizio Sanitario Nazionale, abolendo le USL e creando le attuali Aziende Sanitarie. Non si trattò di un semplice cambio di denominazione: la trasformazione delle unità sanitarie locali in aziende sanitarie locali passò attraverso il mutamento della loro configurazione giuridica. Se le vecchie USL erano strutture operative dei comuni, le nuove ASL sono aziende dipendenti dalla regione, destinate all’erogazione dei servizi sanitari di competenza regionale. Di conseguenza, come rilevato anche dalla Corte Costituzionale, “non vi è più alcun rapporto organico tra il Comune e le Asl, le quali sono invece organi della regione”.
In teoria, la materia è divenuta di competenza delle Regioni, che se ne occupano mediante il proprio “braccio operativo”, ossia le ASL. In realtà, lo stesso decreto legislativo precisa (art. 3, comma 14) che il sindaco, “al fine di corrispondere alle esigenze sanitarie della popolazione”, mantiene il compito di definire, nell’ambito della programmazione regionale, le linee di indirizzo per l’impostazione programmatica e di verifica dell’andamento generale dell’attività. Il quadro normativo, insomma, non è privo di ambiguità: nonostante la trasformazione delle aziende ospedaliere ed il loro trasferimento alle Regioni, residua in capo ai Comuni una non meglio precisata funzione di indirizzo e di verifica, che sovente si è tradotta, come si vedrà più avanti, nell'individuazione di una loro responsabilità.
La legge-quadro n. 281/91 impose alle Regioni (art. 3) precisi compiti: l'istituzione dell'anagrafe canina presso i comuni o le unità sanitarie locali, il risanamento dei canili comunali e la costruzione dei rifugi per cani, nonché (III comma), “sentite le associazioni animaliste, protezioniste e venatorie, che operano in ambito regionale, un programma di prevenzione del randagismo”. Le Regioni avrebbero dovuto adottare, entro sei mesi dalla entrata in vigore della legge-quadro, la relativa normativa d'attuazione.
Nella fattispecie di cui alla sentenza in commento, la Regione Campania aveva dato attuazione alla direttiva con la legge regionale 24 novembre 2001, n. 16, affidando le relative competenze ai servizi veterinari delle A.S.L., i quali (art. 5 lett. c) “attivano il servizio di accalappiamento dei cani vaganti ed il loro trasferimento presso i canili pubblici”.
L'esame delle normative regionali delinea, peraltro, un quadro di competenze estremamente complesso e variegato. Si rimanda al commento citato nelle conclusioni per un rapporto più completo.
Restando al tema della sentenza in commento, il ricorso viene rigettato.
La Corte, dunque, richiama il quadro normativo sopra indicato, ed in particolare la L.R. 24 novembre 2001, n. 16, che ha affidato la competenza della vigilanza e del controllo del randagismo, con accalappiamento e trasferimento degli animali randagi nei canili pubblici, ai servizi veterinari della ASL, mentre ha riservato ai Comuni il compito di munirsi dei canili nei quali ricoverare i cani catturati e quello di risanare le strutture esistenti.
La sentenza richiama, poi, la costante giurisprudenza riguardante proprio la legge regionale della Campania, che ha, al più, in generale affermato la responsabilità solidale del Comune con la Asl di competenza (Cass. civ. sez. III, 23 agosto 2011, n. 17528; Cass. civ. sez. III, 20 giugno 2017, n. 15167) o in alcuni casi addirittura la sola competenza dei servizi veterinari della Asl (Cass. civ. sez. III, del 28 giugno 2018, n. 17060). Anche a prescindere dal caso specifico della regione Campania la cui legislazione è tuttavia vincolante nel caso di specie, il principio generale, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, è di radicare la responsabilità civile per i danni causati dai cani randagi nell'ente o enti cui è attribuito dalla legge (ed in particolare dalle singole leggi regionali attuative della legge quadro nazionale n. 281 del 1991) il dovere di prevenire il pericolo specifico per l'incolumità della popolazione, ossia il compito concreto della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi, mentre non può ritenersi sufficiente, a tal fine, l'attribuzione di generici compiti di prevenzione del randagismo, quale è il controllo delle nascite della popolazione canina e felina, avendo quest'ultimo ad oggetto il mero controllo numerico degli animali, a fini di igiene e profilassi, e, al più, una solo generica ed indiretta prevenzione dei vari inconvenienti legati al randagismo (Cass. sez. III, 18 maggio 2017, n. 12495).
In conclusione, spiega la Cassazione, la ASL è il soggetto individuato dalla normativa regionale quale competente in materia di prevenzione del fenomeno del randagismo. Pertanto era suo compito fare in modo che quel cane randagio non provocasse problemi ed è suo onere rispondere dei danni che ha causato.
Ci si può domandare se questa si debba considerare una forma di responsabilità oggettiva, considerando l'estensione del fenomeno del randagismo e gli effettivi poteri di controllo e di intervento dell'ASL. La risposta, probabilmente, deve essere affermativa.
E se il sinistro fosse stato causato non da un cane, ma da un cinghiale o da un cervo? La fauna selvatica, ai sensi della “legge sulla caccia” (legge 968/77, art. 1) fa parte del patrimonio indisponibile dello Stato.
Parrebbe, quindi, logico applicare anche ad essa il regime dell'art. 2052 c.c.; in realtà, la giurisprudenza di legittimità ha assunto, a tale riguardo, una posizione nettamente contraria. Secondo la Suprema Corte, infatti, l’art. 2052 c.c. è utilizzabile solo per danni provocati da animali domestici o quanto meno ridotti in cattività, sui quali sia concretamente esercitabile un controllo effettivo e continuativo. Data l’assenza, in capo al soggetto pubblico responsabile per gli animali selvatici, di specifici poteri giuridici e fattuali di uso, governo e controllo dell’animale, capaci di limitare la potenzialità dannosa, l’art. 2052 c.c. risulterebbe inapplicabile al caso in esame.
Quest’interpretazione è condivisa da parte della dottrina, che non individua, nella fattispecie, una situazione di custodia (ossia di disponibilità giuridica e di fatto, con relativo potere/dovere di controllo e vigilanza sull'animale), presupposto della responsabilità ex art. 2052 c.c.
L’interesse pubblico alla tutela della fauna selvatica comporta, infatti, il mantenimento della fauna in libertà; ma un animale selvatico è, per definizione, ingovernabile, e l’unico modo di sorvegliarlo continuativamente sarebbe ridurlo in cattività. Lo Stato, pertanto, va considerato un proprietario sui generis, non assimilabile al responsabile civile individuato dall’art. 2052. La presunzione di responsabilità prevista da questa norma, secondo la Cassazione, comporta necessariamente la presenza di concreti poteri di sorveglianza e controllo; per tutte queste ragioni, la norma non risulta utilizzabile per i danni causati da animali selvatici.
I giudici di merito, peraltro, in più occasioni hanno tentato di attaccare questa situazione, ritenuta foriera di ingiusti privilegi alla P.A., invocando persino l’illegittimità costituzionale dell’art. 2052 c.c., nella parte in cui non prevede la responsabilità della Pubblica Amministrazione per i danni provocati dalla fauna selvatica. La Corte Costituzionale, però, ha seguito il medesimo orientamento della Cassazione: secondo la Consulta, il danno da fauna selvatica rappresenta un’eclatante eccezione al principio ubi commoda, ibi incommoda, giustificata dal fatto che lo Stato non diventerebbe proprietario degli animali selvatici per utilizzarli o usufruirne in un qualunque modo (e quindi per trarne i commoda), ma unicamente per proteggerli e tutelarli, nell’interesse comune ed a spese della collettività.
Non mancano, anche in questo campo, sentenze favorevoli agli automobilisti danneggiati (che sono numerosi). Tuttavia l'inapplicabilità del 2052 in favore del 2043 comporta difficoltà probatorie considerevoli, perchè richiede l'individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all'ente pubblico, consistente nel non aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Una prova, nella stragrande maggioranza dei casi, a di poco diabolica. Tanto più, che per la PA non vale la presunzione del 2052, ma per l'automobilista il 2054 rimane pienamente valido.
Rigetto del ricorso:
Legge-quadro 14 agosto 1991, n. 281
Legge regionale Campania 24 novembre 2001, n. 16
Cassazione civile, sez. III, ordinanza 10 settembre 2019, n. 22522