Leasing in caso di interessi moratori superiori al tasso soglia: Per la Cassazione è usura
La Suprema Corte conferma, ancora una volta, che anche gli interessi convenzionali di mora, come quelli corrispettivi, devono sottostare alla regola generale per cui, se pattuiti ad un tasso eccedente quello stabilito dall'art. 2, comma 4, Legge 7.3.1996 n. 108, vanno qualificati ipso iure come usurari. Gli ermellini, pur affermando l'identica funzione sostanziale degli interessi corrispettivi e di quelli moratori, hanno però ritenuto che l'applicazione dell'art. 1815, comma 2, c.c. agli interessi moratori usurari non sia sostenibile, atteso che la norma si riferisce solo agli interessi corrispettivi, e considerato che la causa degli uni e degli altri è pur sempre diversa, il che rende ragionevole, in presenza di interessi convenzionali moratori usurari, di fronte alla nullità della clausola, attribuire, secondo le norme generali, al danneggiato gli interessi al tasso legale. Con questa ordinanza (n. 27442/2018) la Suprema Corte sembra reinterpretare l’altra pronuncia delle Sezioni Unite n. 24675 del 19 ottobre 2017.
Il principio per cui le norme antiusura si applicano anche agli interessi moratori, è stato in seguito ribadito da .
Cass. Civ. n. 14899 del 17/11/2000,
Cass. Civ. Sentenza n. 8442 del 13/06/2002,
Cass. Civ. Sentenza n. 5324 del 04/04/2003,
Cass. Civ. Sentenza n. 10032 del 25/05/2004,
Cass. Civ. Sentenza n. 1748 del 25/01/2011,
Cass. Civ. Sentenza n. 9896 del 15/04/2008,
Cass. Civ. Ordinanza n. 5598 del 06/03/2017,
Cass. Civ. Ordinanza n. 23192 del 4/10/2017.
Dello stesso avviso è stata questa la Cassazione anche in sede penale [Cass. pen. sez. II, 21.2.2017 (ud. 31.1.2017), n. 8448]
Difformi
Non si rinvengono precedenti
Il fatto
La vicenda trae origine da un contratto di leasing stipulato nel 2006 da una società con una banca. I debiti dell'utilizzatore verso il concedente vennero garantiti da un fideiussore. Utilizzatore e fideiussore convennero dinanzi al Tribunale di Milano la banca, esponendo che:
- il contratto di leasing prevedeva nel caso di inadempimento dell'utilizzatore interessi moratori nella misura dell'8,6°% annuo;
- tale saggio di interessi era superiore a quello massimo legale (c.d. tasso-soglia) applicabile ratione temporis, pari al 7,86% (il ricorso non precisa se alla data di pattuizione del saggio, a quella di costituzione in mora, ovvero a quella di introduzione del giudizio);
- di conseguenza il saggio degli interessi di mora doveva ritenersi usurario, e quindi nullo il relativo patto;
- conseguenza della nullità del patto che fissava la misura degli interessi moratori era la liberazione del debitore dal pagamento di qualsiasi interesse, ai sensi dell'art. 1815 c.c.
Gli attori conclusero pertanto chiedendo che fosse dichiarata la nullità del suddetto patto di interessi moratori in misura ultralegale; che fosse dichiarata l'insussistenza dell'obbligo dell'utilizzatore di pagare interessi; che fosse dichiarata la liberazione del fideiussore ex art. 1956 c.c., e che il Banco fosse condannato alla restituzione "di quanto indebitamente percepito".
La banca eccepì che il limite oltre il quale gli interessi sono sempre “usurari", ovvero il tasso-soglia, non fosse applicabile agli interessi di mora. Il Tribunale di Milano rigettò la domanda, ritenendo che la regola per cui gli interessi eccedenti il tasso-soglia sono usurari e non dovuti, non si applicasse agli interessi moratori.
La sentenza venne appellata dai soccombenti, ma la Corte di appello di Milano con sentenza 6.6.2016 n. 2232, rigettò il gravame, ritenendo che gli interessi corrispettivi e quelli moratori sono "ontologicamente" disomogenei, poiché:
a') i primi remunerano un capitale, i secondi costituiscono una sanzione convenzionale ed una coazione indiretta per dissuadere il debitore dall'inadempimento, e sono perciò assimilabili alla clausola penale;
a") i primi sono necessari, i secondi eventuali;
a") i primi hanno una finalità di lucro, i secondi di risarcimento;
b) non esiste nessuna norma di legge che commini la nullità degli interessi moratori eccedenti il tasso soglia;
c) tanto si desume dalla circostanza che la rilevazione periodica, da parte del Ministero del Tesoro, degli interessi medi praticati dagli operatori finanziari viene effettuata trascurando quelli moratori;
d) sarebbe stato irrazionale, nel caso di specie, ritenere usurari interessi moratori convenzionali al saggio dell'8,6%, laddove nella stessa epoca la legge contro i ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali tra imprenditori prevedeva, come interesse legale di mora, un saggio del 9,25%. Utilizzatore e fideiussore ricorrevano in Cassazione, con un unitario ricorso fondato su due motivi.
Il Banco resisteva con controricorso.
La pronuncia
L’ordinanza ribadisce che il divieto di pattuire interessi eccedenti la misura massima prevista dall’art. 2 della legge 108/1996, si applica sia agli interessi corrispettivi, interessi promessi a titolo di remunerazione d'un capitale o della dilazione d'un pagamento (art. 1282 c.c.), sia agli interessi moratori, ovvero agli interessi dovuti in conseguenza della costituzione in mora (art. 1224 c.c.).
Secondo il Supremo Collegio, gli interessi convenzionali di mora non sfuggono alla regola generale per cui, se pattuiti ad un tasso eccedente quello stabilito dall'art. 2, comma 4, L. 7.3.1996 n. 108, vanno qualificati ipso iure come usurari, con le conseguenze di cui si dirà più oltre.
Questo principio è già stato reiteratamente affermato sia da questa Corte in sede civile e penale, sia dalla Corte costituzionale.
La stessa Corte ne indica il fondamento, la portata e le conseguenze della norma e del suo ragionamento, ripercorrendo puntualmente i criteri di ermeneutica legale - condotta attraverso: l'interpretazione letterale, l'interpretazione sistematica, l'interpretazione finalistica e quella storica.
1) Con l’interpretazione letterale vengono citati l’art. 644 c.p., la norma di attuazione art. 2, comma 4 l. 108/1996 e l’art. 1, comma 1 del d.l. 394/00, specificando altresì che il richiamo agli interessi pattuiti ‘a qualsiasi titolo’, rende palese l’estensione del divieto agli interessi di mora, conclusione confermata dai lavori preparatori della l. 24/01.
L'art. 644, comma primo, c.p., stabilisce: "chiunque (...) si fa dare o promettere (...) in corrispettivo di una prestazione di denaro (...) interessi (...) usurari, è punito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da euro 5.000 a euro 30.000".
Il terzo comma della stessa disposizione recita: "la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari". A tali norme ha dato attuazione l'art. 2, comma 4, I. 7.3.1996 n. 108, il quale - nel testo vigente all'epoca della stipula del contratto di leasing oggetto del presente giudizio (2006) - stabiliva che "il limite previsto dal terzo comma dell'art. 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso medio risultante dall'ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà".
Infine, si richiama l'art. 1, comma 1, del d.l. 29.12.2000 n. 394 (convertito nella I. 28 febbraio 2001, n. 24), nell'interpretare autenticamente l'art. 644 c.p.
Poiché dunque gli interessi possono essere pattuiti sia a titolo di corrispettivo della cessione d'un capitale (artt. 820, terzo comma c.c., art. 1282 c.c., 1499 c.c.); sia a titolo della remunerazione d'una prestazione a pagamento differito (arg. ex art. 1714 c.c.); sia a titolo di mora (art. 1224 c.c.), la previsione secondo cui il giudizio di usurarietà può riguardare gli interessi pattuiti "a qualunque titolo", rende palese che per la lettera della legge anche gli interessi di mora restano soggetti alle norme antiusura. La conclusione appena raggiunta è confermata dai lavori preparatori della L. 24/2001: nella relazione che accompagnò, nella XIII legislatura, l'esame in aula del d.d.l. n. S-4941 si legge, infatti, al § 4, che il decreto aveva lo scopo di chiarire come si dovesse valutare la usurarietà di qualunque tipo di tasso di interesse, "sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio".
Appare dunque, impossibile negare che le norme antiusura si applichino agli interessi moratori convenzionali, se lo stesso legislatore, nell'interpretarle autenticamente, intese precisare che esse si
dovessero applicare senza distinzioni. Gli interessi corrispettivi ex art. 1282 c.c.remunerano dunque un capitale di cui il creditore si è privato volontariamente; quelli moratori
ex art. 1224 c.c. remunerano invece un capitale di cui il creditore è rimasto privo involontariamente: ma tanto gli uni, quanto gli altri, rappresentano - secondo la celebre espressione paretiana - "il fitto del
capitale". Anche gli interessi moratori, pertanto, costituiscono la remunerazione di un capitale, e rientrano nella previsione degli interessi "promessi o dovuti in corrispettivo di una prestazione in denaro".
L’interpretazione sistematica, precisa che tanto gli interessi corrispettivi che quelli moratori sono soggetti al divieto, costituendo la remunerazione di un capitale di cui il creditore non ha goduto: nel primo caso volontariamente, nel secondo caso involontariamente. Il danno patito dal creditore d’una obbligazione pecuniaria altro non è che la conseguenza del principio economico della naturale fecondità del denaro: tanto gli interessi corrispettivi quanto quelli moratori ristorano il differimento nel tempo del godimento d’un capitale. Nell’interpretazione dell’art. 1224 c.c. il danno da ritardato adempimento d’una obbligazione pecuniaria si identifica nella perduta possibilità per il creditore di investire la somma dovutagli e trarne un lucro finanziario. Ma il danno che il creditore d'una somma di denaro può patire non può che consistere o nella necessità di ricorrere al credito, remunerando con l'interesse chi glielo conceda; o di rinunciare ad impiegare la somma dovutagli in investimenti proficui.
Gli interessi corrispettivi e quelli convenzionali moratori presentano un’identità di funzione giuridica che ne implica l’assoggettamento al divieto d’usura. Tanto gli interessi compensativi, quanto quelli convenzionali moratori ristorano dunque il differimento nel tempo del godimento d'un capitale: essi differiscono dunque nella fonte (solo il contratto nel primo caso, il contratto e la mora nel secondo) e nella decorrenza (immediata per i primi, differita ed eventuale per i secondi), ma non nella funzione.
La conclusione appena esposta è confermata dalla giurisprudenza di questa Corte formatasi sull'art. 1224 c.c.; dalla Relazione al vigente codice civile e da autorevole dottrina. La Corte, nell'interpretare l'art. 1224 c.c., ha già più volte ribadito che questa norma disciplina sì il risarcimento del danno da inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, ma il "danno" da ritardato adempimento d'una obbligazione pecuniaria si identifica nella perduta possibilità per il creditore di investire la somma dovutagli, e trarne un lucro finanziario (Cass. Civ. Sez. Unite, Sentenza n. 19499 del 16/07/2008, Rv. 604419 - 01).
Ciò conferma che gli interessi moratori, convenzionali o legali che siano, remunerano un capitale, né più, né meno, che gli interessi corrispettivi.
S'è detto sin qui che gli interessi convenzionali moratori e quelli corrispettivi hanno la medesima funzione (remunerare il mancato godimento d'un capitale), e che tale identità di funzione giustifica l'assoggettamento di entrambi alla legislazione antiusura. Deve ora aggiungersi che le conclusioni appena raggiunte non sono scalfite dalla tralatizia affermazione secondo cui gli interessi corrispettivi e quelli moratori avrebbero una funzione diversa: remunerativa i primi, risarcitoria i secondi. Ciò per tre ragioni.
La prima ragione è che tale scolastica distinzione, prescinde del tutto dalla genesi e dallo sviluppo storico della distinzione tra interessi
compensativi e moratori. La seconda ragione è che quella appena ricordata costituisce una delle purtroppo non rare tralatizie affermazioni, spesso irriflessivamente reiterate, dal cui abuso hanno messo in guardia le Sezioni Unite di questa Corte, allorché hanno indicato, come precondizione necessaria per l'interpretazione della legge, la necessità di "sgombrare il campo di analisi da (...) espressioni sfuggenti ed abusate che hanno finito per divenire dei "mantra" ripetuti all'infinito senza una preventiva ricognizione e condivisione di significato (...), [il quale] resta oscuro e serve solo ad aumentare la confusione ed a favorire l'ambiguità concettuale nonché la pigrizia esegetica" (Cass. Civ., Sez. Unite, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015).
La terza ragione è che, anche ad ammettere che gli interessi moratori abbiano lo scopo di risarcire il creditore, e quelli corrispettivi di ricompensarlo per il prestito d'un capitale, tale affermazione resterebbe una mera declamazione teorica. Sul piano del diritto positivo, infatti, mancano sia norme espresse, sia plausibili ragioni giuridiche che giustifichino un diverso trattamento dei due tipi di interessi quanto al contrasto dell'usura.
L’interpretazione finalistica ribadisce che gli interessi convenzionali moratori non sfuggano alle previsioni della I. 108/96, come confermato dalla ratio di tale legge. Tale interpretazione richiama il criterio oggettivo posto dalla l. 108/1996 al duplice scopo di tutelare da un lato le vittime dell’usura e dall’altro il superiore interesse pubblico all’ordinato e corretto svolgimento delle attività economiche. Escludere, pertanto, dall'applicazione di quella legge il patto di interessi convenzionali moratori da un lato sarebbe incoerente con la finalità da essa perseguita; dall'altro condurrebbe al risultato paradossale che per il creditore sarebbe più vantaggioso l'inadempimento che l'adempimento; per altro verso ancora potrebbe consentire pratiche fraudolente, come quella di fissare termini di adempimento brevissimi, per far scattare la mora e lucrare interessi non soggetti ad alcun limite.
Nell’interpretazione storica si illustra come la pretesa distinzione “ontologica e funzionale” tra le due categorie di interessi costituisce, sia un falso storico ma sorse e si affermò per circoscritti e non più attuali fini. L'analisi storica dell'istituto in esame conferma infatti che:
(a) gli interessi moratori sorsero per compensare il creditore dei perduti frutti del capitale non restituito, e quindi per riprodurre, sotto forma di risarcimento, la remunerazione del capitale;
(b) l'opinione secondo cui gli interessi moratori avrebbero una funzione diversa da quelli corrispettivi sorse non per sottrarre gli. interessi moratori alle leggi antiusura, ma per aggirare il divieto canonistico di pattuire interessi tout court;
(c) la presenza nel nostro codice civile di due diverse norme, l'una dedicata agli interessi moratori (art. 1224 c.c.) l'altra agli interessi corrispettivi (art. 1282 c.c.) non si spiega con la distinzione tra le due categorie di interessi e non ne giustifica un diverso trattamento rispetto
alle pratiche usurarie, ma è retaggio dell'unificazione del codice civile e di quello di commercio, che avevano risolto in termini diversi il problema della decorrenza degli effetti della mora.
La inesistente distinzione "funzionale" non giustifica affatto la pretesa che gli interessi moratori sfuggano all'applicazione della I. 108/1996.
I giuristi romani di epoca classica distinsero vari tipi di interessi: tra questi, rileva ai nostri fini la distinzione tra interessi dovuti in virtù d'un patto ad hoc; e quelli dovuti per diritto pretorio: per tale distinzione, tra i tanti, si veda Marciano, Libri IV Regularum, in Dig., XXII, I, 32,2). I primi avevano la funzione di remunerare un capitale dato a mutuo, ed il loro fondamento era spiegato col fatto che il mutuante, privandosi della disponibilità del capitale dato a mutuo, si sarebbe privato anche dei relativi frutti, i quali dovevano perciò essere compensati dall'obbligo di pagamento del foenus. I secondi erano concepiti come una remunerazione compensativa del pregiudizio che il creditore, non ricevendo tempestivamente la restituzione o il pagamento di quanto dovutogli, aveva patito per non potere investire l'importo dovutogli e farlo fruttare: così Dig., XXII, I, 17, 3).
Da questa affinità concettuale tra i due istituti (foenus ed usurae) discese che per lunghi secoli l'uno e l'altro furono sempre soggetti alle medesime regole in tema di usura.
Nel censurare la decisione della Corte di appello (oltre che di tutta la corrente di pensiero a cui quest’ultima si adegua): la Corte d'appello di Milano ha affermato in primo luogo che gli interessi corrispettivi e quelli moratori sarebbero "ontologicamente" disomogenei, poiché i primi remunerano un capitale, i secondi costituiscono una sanzione convenzionale ed una coazione indiretta per dissuadere il debitore dall'inadempimento, e sono perciò assimilabili alla clausola penale; i primi sono necessari, i secondi eventuali; i primi hanno una finalità di lucro, i secondi di risarcimento. Si è già visto, tuttavia, come la pretesa diversità strutturale tra i due tipi di interesse, se pure non raramente affermata, costituisce oggetto di un aforisma scolastico, non giustificata sul piano storico e sistematico. Deve ora aggiungersi che, si pensi che quel che si voglia di tale pretesa diversità "ontologica", essa comunque non varrebbe a giustificare la diversità di disciplina sul piano dell'usura, per le ragioni anche in questo già esposte: tale interpretazione sarebbe infatti asistematica, contrattante con la ratio della legge 108/96; contrastante con una esperienza giuridica millenaria. Tuttavia non viene affatto condivisa l'affermazione secondo cui non esisterebbe alcuna norma di legge che commini la nullità degli interessi convenzionali moratori eccedenti il tasso soglia. È vero, infatti, l'esatto contrario: l'ampia formula degli artt. 644 c.p.; dell'art. 2 I. 108/96; dell'art. 1 d.l. 394/2000 , dimostrano che la legge non consente distinzioni di sorta tra i due tipi di interessi, e tale conclusione è espressamente ribadita dai lavori parlamentari.
La S.C. inoltre ritiene che non è neanche condivisibile, che la rilevazione periodica da parte del Ministero del Tesoro degli interessi medi praticati dagli operatori finanziari non prenda in considerazione gli interessi moratori. L'art. 2, comma 1, L. 108/1996 stabilisce infatti che la rilevazione dei tassi medi debba avvenire per "operazioni della stessa natura". E non v'è dubbio che con l'atecnico lemma "operazioni" la legge abbia inteso riferirsi alle varie tipologie contrattuali. Ma il patto di interessi moratori convenzionali ultralegali non può dirsi una "operazione", e tanto meno un tipo contrattuale. Esso può infatti accedere a qualsiasi tipo di contratto, ed essere previsto per qualsiasi tipo di obbligazione pecuniaria: corrispettivi, provvigioni, rate di mutuo, premi assicurativi, e via dicendo. È dunque più che normale che il decreto ministeriale non rilevi la misura media degli interessi convenzionali di mora, dal momento che la legge ha ritenuto di imporre al ministro del tesoro la rilevazione dei tassi di interessi omogenei per tipo di contratto, e non dei tassi di interessi omogenei per titolo giuridico. Ne discende che la mancata previsione, nella legge 108/1996, dell'obbligo di rilevazione del saggio convenzionale di mora "medio" non solo non giustifica affatto la scelta di escludere gli interessi moratori dal campo applicativo della legge 108/96, ma anzi giustifica la conclusione opposta: il saggio di mora "medio" non deve essere rilevato non perché agli interessi moratori non s'applichi la legge antiusura, ma semplicemente perché la legge, fondata sul criterio della rilevazione dei tassi medi per tipo di contratto, è concettualmente incompatibile la rilevazione dei tassi medi "per tipo di titolo giuridico". E non sarà superfluo aggiungere che la stessa Banca d'Italia, nella Circolare 3.7.2013, ammette esplicitamente che "in ogni caso, anche gli interessi di mora sono soggetti alla normativa anti -usura".
La sentenza non accoglie, il reiterato riferimento alla legge contro i ritardi nel pagamento delle transazioni commerciali tra imprenditori, che prevede, come interesse legale di mora, un saggio del 9,25% che può risultare superiore alle soglie d’usura. L’art. 5 del d. lgs 231/02 fissa il saggio “legale” di mora nelle transazioni commerciali, ma lascia alle parti la facoltà di derogarvi. Se le parti vi derogano, il patto di interessi moratori non sarà più disciplinato dal d. dls. 231/02, ma dalle restanti norme dell’ordinamento, dunque dall’art. 2 legge 108/96.
Richiamando infine la Corte Cost. n. 29/2002 e le pronunce della Cassazione intervenute nel corso degli ultimi vent’anni, nelle quali si stabilisce il principio di diritto: ‘è nullo il patto col quale si convengono interessi convenzionali moratori che, alla data della stipula, eccedano il tasso soglia di cui all’art. 2 della l. 7.3.1996 n. 108, relativo al tipo di operazione cui accede il patto di interessi moratori convenzionali’.
A detto principio viene altresì aggiunta la precisazione che, in assenza di qualsiasi norma di legge, l’usurarietà degli interessi moratori vada accertata in base al saggio rilevato ai sensi dell’art. 2 legge 108/96 (tasso soglia calcolato con riferimento al tipo di contratto) e non in base ad un “fantomatico tasso” talora definito nella prassi di “mora-soglia”, ottenuto incrementando arbitrariamente di qualche punto percentuale il tasso soglia’.
Il ritardo colpevole, poi, non giustifica di per sé il permanere della validità di un'obbligazione così onerosa e contraria al principio generale posto dalla legge. Da ciò trasse la conclusione che la pattuizione di interessi moratori a tasso divenuto usurario a seguito della legge 108/1996 è illegittima anche se convenuta in epoca antecedente all'entrata in vigore della detta legge (Cass. Civ., Sez. 1, Sentenza n. 5286 del 22/04/2000).
Il primo motivo di ricorso, è stato dunque accolto, e la sentenza impugnata cassata con rinvio alla Corte d'appello di Milano, la quale nel riesaminare il gravame proposto dalla società ricorrente applicherà il seguente principio di diritto: "è nullo il patto col quale si convengano interessi convenzionali moratori che, alla data della stipula, eccedano il tasso soglia di cui all'art. 2 della L. 7.3.1996 n. 108, relativo al tipo di operazione cui accede il patto di interessi moratori convenzionali”.
La Corte ha poi concluso con due precisazioni finali:
“La prima è che il riscontro dell'usurarietà degli interessi convenzionali moratori va compiuto confrontando puramente e semplicemente il saggio degli interessi pattuito nel contratto col tasso soglia calcolato con riferimento a quel tipo di contratto, senza alcuna maggiorazione od incremento: è infatti impossibile, in assenza di qualsiasi norma di legge in tal senso, pretendere che l'usurarietà degli interessi moratori vada accertata in base non al saggio rilevato ai sensi dell'art. 2 legge 108/96, ma in base ad un fantomatico tasso talora definito nella prassi di "mora-soglia", ottenuto incrementando arbitrariamente di qualche punto percentuale il tasso soglia. La seconda notazione finale è che nel giudizio di rinvio resterà precluso, perché coperto dal giudicato interno, l'esame della questione concernente l'applicabilità, al contratto di leasing oggetto del presente giudizio, della previsione di cui all'art. 1815, comma secondo, c.c. La sentenza impugnata, infatti, ha affrontato espressamente tale questione (pag. 14, § 3.2), stabilendo con autonoma ratio decidendi che la nullità del patto di interessi moratori non potrebbe mai escludere l'obbligo dell'utilizzatore di pagamento degli interessi corrispettivi (omissis).”
Il secondo motivo del ricorso resta assorbito dall'accoglimento del primo.
Cassazione civile, Sez. III, ordinanza 30 ottobre 2018, n. 27442