La vendita sottocosto non è sempre distrazione fallimentare e quindi presupposto per il reato di ban
Se realizzata in fase diversa da quella della crisi dell’impresa e distante dalla dichiarazione di fallimento, la vendita “sottocosto” dei beni aziendali per pagare i creditori sociali non integra distrazione fallimentare, ove difetti l’idoneità a pregiudicare la massa dei creditori in seno ad una procedura concorsuale. In tali condizioni temporali e economico-finanziarie, infatti, il distacco ingiustificato dal patrimonio dell’impresa può integrare l’elemento oggettivo del ricordato reato fallimentare solo se determina il pericolo concreto di pregiudicare l’interesse e le prospettive di soddisfacimento dei creditori in sede di eventuale futura procedura concorsuale, influenza che, al pari della procedura concorsuale, deve essere prevedibile al momento della condotta e persistere sino alla dichiarazione di fallimento.
Il caso
L’amministratore unico di una società a responsabilità limitata veniva condannato in grado di appello per bancarotta fraudolenta per distrazione. In dettaglio, l’addebito era quello di aver venduto, in un momento nel quale la società aveva preso a manifestare, da qualche tempo, segni di crisi finanziaria, un immobile aziendale ad un prezzo ritenuto “sottocosto”, effettivamente versato nelle casse sociali e per tale contabilizzato; i profili di fraudolenza venivano individuati nell’importo del prezzo sottostimato di oltre la metà rispetto al valore commerciale considerato effettivo (per tale iscritto in contabilità, tenuto conto dell’ammortamento) e nel fatto che l'alienazione dell’immobile era stata effettuata ai suoceri dell’imputato i quali, poi, a loro volta, lo avevano conferito in una società, costituita qualche anno dopo, amministrata dalla moglie dell’imputato.
L’imputato ricorreva per cassazione adducendo, per l’interesse di questo commento, la violazione di legge ed il difetto di motivazione in merito al dolo tipico ed all’idoneità offensiva della condotta rispetto all’interesse dei creditori.
Quanto alla ritenuta sussistenza dell'atteggiamento psicologico rispetto alla bancarotta per distrazione, il ricorrente lamentava l’incoerenza della soluzione rispetto al proscioglimento per insussistenza del fatto intervenuto per analoga imputazione concernente la vendita sottocosto di merci della società, in entrambi i casi il comportamento essendo stato volto a soddisfare, almeno in parte, i debiti verso fornitori prima della dichiarazione di fallimento; egli aveva agito, dunque, nei termini della contestazione ma per contrastare una crescente esposizione debitoria della società, non per frodare i creditori o per conseguire per sé un ingiusto profitto, come avvalorato dall’ineccepibile contabilità tenuta e da una perizia giurata, posta a fondamento dell'atto di compravendita, che aveva confermato la congruità del prezzo di cessione dell'immobile. Inoltre, l'atto distrattivo non aveva creato un maggiore squilibrio fra l'attivo e passivo nell'ottica del soddisfacimento dell'interesse dei creditori che, invece, all'atto dell'insinuazione erano risultati inferiori a quelli registrati in contabilità, essendo stati in buona parte soddisfatti.
La decisione della Cassazione
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondate tali doglianze.
La natura distrattiva della vendita dell’immobile della società, per un valore dimezzato rispetto a quello assunto in contabilità e considerato di mercato, in favore di familiari stretti dello stesso imprenditore, non era stata adeguatamente chiarita, tenuto conto dell'epoca della vendita (tre anni prima della dichiarazione di fallimento) e del fatto che analogo e coevo comportamento dell’imputato (la vendita sottocosto di merci aventi un valore assai maggiore di quello dell'immobile) era stato ritenuto privo di rilievo penale, avendo portato alla assoluzione per insussistenza del fatto. Per tale ultima vendita sottocosto, infatti, il primo giudice aveva escluso la natura fraudolenta riconoscendo che era stata determinata dalla necessità di reperire liquidità per soddisfare almeno in parte i debiti verso i fornitori, senza adombrare il carattere preferenziale dei pagamenti; per la vendita dell'immobile, invece, tale ricostruzione era stata negata, assumendo ostativo il beneficio dall’alienazione tratto dai familiari (non imputati) del ricorrente, «senza alcuna considerazione circa la prevedibilità di una procedura concorsuale sopravvenuta solo tre anni dopo».
Ad avviso della Corte di legittimità, in presenza di fallimento sopravvenuto a consistente distanza di tempo (nel caso tre anni dopo la condotta), per qualificare come ipotesi di bancarotta prefallimentare per distrazione la risalente vendita sottocosto era necessario che il fallimento fosse almeno prevedibile al momento del fatto. Ove la condotta non sia prossima allo stato di insolvenza o connotata da altre caratteristiche intrinsecamente pericolose per le future ragioni concorsuali dei creditori, solo al ricorrere di tale prevedibilità, infatti, l’ingiustificato distacco di parte del valore del bene, frutto dell'atto infedele dell'amministratore, costituisce espressione di una consapevole e concreta esposizione a pericolo degli interessi dei creditori.
In termini di prospettazione alternativa, la vendita sottocosto di un cespite aziendale, con acquisizione di liquidità per la società e contestuale vantaggio (anche solo indiretto) dell'amministratore di questa, potrebbe integrare gli estremi dell'infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c.), ma per qualificarsi come ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria a norma dell'art. 223, comma 2, n. 1) legge fall., nel caso non contestata, dovrebbe cagionare, o concorrere a cagionare il dissesto della società.
Il giudice del rinvio, dunque, dovrà inquadrare la vendita sottocosto del cespite aziendale nel contesto delle condizioni economiche della società ed accertare se, tenuto conto della lontananza dalla dichiarazione di fallimento (chiarendo meglio le scansioni temporali dell’emersione dello stato di crisi e di insolvenza), tale operazione abbia determinato il rischio di sottrarre il maggior valore del bene a una possibile futura procedura concorsuale, ledendo l'interesse procedimentale della massa, a fianco a quello soddisfatto dei singoli creditori.
Il percorso motivazionale del giudice di merito
Il giudice di merito aveva ritenuto che la vendita sottocosto dell'immobile in una fase di conclamata crisi della vita della società (qualche mese dopo messa in liquidazione, anche se fallita soltanto tre anni più tardi) aveva natura distrattiva, essendo posta in essere al fine di procurarsi un ingiusto profitto e di recare pregiudizio ai creditori. Poste tali premesse, restava irrilevante il reclamato intento dell'imputato di destinare il provento della vendita solo al soddisfacimento di interessi societari, contenendo l’esposizione debitoria della società.
Il percorso motivazionale della Corte di Cassazione: circostanze rilevanti
Per contro, la Corte regolatrice, non ponendo in discussione la realtà della vendita sottocosto, ha mostrato di considerare rilevanti due elementi: (i) tutto il prezzo incassato era stato destinato alla gestione della società (per estinguere debiti societari), non diversamente dal ricavato di altre contestuali vendite di beni aziendali di maggiore importo (queste ultime reputate prive di rilevanza penale nell'ottica dei reati fallimentari); (ii) tra le vendite in questione e la dichiarazione di fallimento era intercorso un lasso di tempo di oltre tre anni.
Evidente appariva il vizio della motivazione che riconduceva a formule terminative del processo opposte nonostante l'apparente analogia delle condotte originariamente contestate.
Per rimarcare l’illogicità della motivazione, la Corte ha organizzato la motivazione muovendo dalla ricostruzione del bene giuridico della bancarotta distrattiva, distinguendo le evenienze in cui vi sia stretto rapporto cronologico tra l'atto dispositivo che diminuisce la garanzia dei creditori della futura procedura concorsuale e gli evidenti segnali o indicatori dei presupposti storici di questa (nelle forme della crisi di impresa, della insolvenza o del dissesto) da quelle in cui tale stretta relazione temporale manchi.
Il bene giuridico della bancarotta per distrazione
Quanto all’oggettività giuridica, la Cassazione conferma come la bancarotta tuteli l’interesse all'integrità del patrimonio nella sua peculiare funzione di garanzia dei creditori (Sez. U, Sentenza n. 24468 del 26/02/2009 Cc., dep. 12/06/2009, Rv. 243585), in vista della eventuale rischio di loro non pieno soddisfacimento (Corte costituzionale, ord. n. 268 del 1989), ovvero contro il pericolo che, ove per qualsiasi ragione si dia luogo ad una procedura concorsuale, l'esito della stessa venga condizionato da atti distrattivi che abbiano comunque ridotto il patrimonio disponibile (Cass. Pen., Sez. V, n. 32031 del 07/05/2014 Ud., dep. 21/07/2014, Rv. 261988).
“Zona di rischio penale”
Ebbene, nel caso di stretto rapporto cronologico tra l'atto dispositivo depauperativo e crisi di impresa, insolvenza o dissesto appaiono manifeste sia la natura concretamente "pericolosa" dell’azione sia la rimproverabilità soggettiva del suo autore. Infatti, sussiste un «valore fortemente indiziante - ai fini della configurazione delle componenti oggettiva e soggettiva della fattispecie - dell'avere agito, l'agente, nella "zona di rischio penale" (vedi, in senso analogo, Sez. V, n. 16579 del 24/03/2010, Fiume, Rv. 246879), che è quella che in dottrina viene comunemente individuata come prossimità dello stato di insolvenza, quando l'apprezzamento di uno stato di crisi, normalmente conosciuto dall'agente imprenditore o figura equiparata, è destinato a orientare la "lettura" di ogni sua iniziativa di distacco dei beni - fatte salve quelle inquadrabili nelle altre ipotesi di reato pure previste dalla legge del 1942 - nel senso della idoneità a creare un pericolo per l'interesse dei creditori sociali».
Impresa in bonis
I termini della questione sono più complicati ove detto stretto rapporto cronologico manchi (o si assumano soluzioni diversificate tra atti omogenei, come nel caso all’esame della Corte) e l'atto depauperativo non possa correlarsi oggettivamente e soggettivamente in modo evidente alla fase di crisi o insolvenza della impresa. La Corte ha rimarcato la necessità di individuare soluzioni compatibili con il principio costituzionale di colpevolezza di cui all'art. 27, comma 1, Cost., quale declinato dalla sentenza n. 1085 del 1988 della Corte Costituzionale, che richiede «quale essenziale requisito subiettivo d'imputazione, oltre alla coscienza e volontà dell'azione od omissione, almeno la colpa quale collegamento subiettivo tra l'autore del fatto ed il dato significativo (sia esso evento oppur no) addebitato» e la «rimproverabilità dello stesso soggettivo collegamento».
Lontano dalla fase di crisi o di insolvenza, dunque per imprese o società in bonis, «l'imprenditore può dare dinamicamente a singoli propri beni delle destinazioni che non necessariamente collidono ed anzi possono coesistere col principio di responsabilità di cui all'art. 2740 cc, essendo egli semmai tenuto alla conservazione del valore del patrimonio nel suo complesso». Lo testimonia il fatto che egli è «abilitato a fare spese personali o per la famiglia la cui entità non deve essere neppure assiomaticamente minima se la condizione economica glielo consente (arg. ex art. 217 comma 1 n. 1 I. fall.), non è perseguibile neppure a titolo di bancarotta semplice se, ancora quando le sue condizioni sono favorevoli, impiega una parte contenuta del suo patrimonio in operazioni imprudenti; né il singolo suo creditore potrebbe attivare i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale (artt. 2900 e 2901 cc) se non ricorresse, quale effetto del suo comportamento quale debitore, una lesione al patrimonio capace di mettere in dubbio la realizzazione coattiva del credito».
In tale più complicata evenienze, senza trascurare le pronunce che da tempi risalenti hanno affermato che «ai fini del delitto di bancarotta fraudolenta assumono rilevanza i fatti posti in essere in previsione dell'insolvenza e della probabile dichiarazione di fallimento, perché soltanto in relazione a tali fatti può sussistere la consapevolezza di sottrarre beni alla esecuzione concorsuale» (Cass. Pen, Sez. V, n. 14905 del 25/02/1977, ric. Melone, Rv. 137341), la Corte ha preso atto che molte pronunce di legittimità hanno mostrato di affrancare l’accertamento da tale previsione, affermando che i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualunque tempo essi siano stati commessi, e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l'impresa non versava in condizioni di insolvenza (Cass. Pen., Sez. V, n. 39546 del 2008, ric. Bonaldo, non massimata; Cass. Pen., Sez. unite n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, in motivazione). Sempre secondo questa linea interpretativa è stato stabilito che «l'elemento soggettivo della bancarotta fraudolenta, è costituito dal dolo generico e, quindi, dalla coscienza e volontà dell'azione, compiuta con la consapevolezza, insita nel concetto stesso di distrazione, del depauperamento o della possibilità del depauperamento della società in danno dei creditori. Sul dolo non ha incidenza, quindi, né la finalità perseguita in via contingente dal soggetto, che è fuori della struttura del reato, né il recupero o la possibilità di recupero del bene distaccato, attraverso specifiche azioni esperibili, in quanto la norma incriminatrice punisce, in analogia alla disciplina dei reati che offendono comunque il patrimonio, il fatto della sottrazione, nel quale si traduce, con corrispondente danno, ontologicamente, ogni ipotesi di distrazione. La sottrazione si perfeziona al momento del distacco dei beni dal patrimonio della società, anche se il reato viene ad esistenza giuridica con la dichiarazione di fallimento, e prescinde dalla validità, opponibilità e dagli effetti civili del trasferimento e dalle eventuali azioni esperibili per l'acquisizione del bene. Il recupero del bene, reale o soltanto potenziale, è un "posterius" che non ha incidenza giuridica sulla fattispecie ormai perfetta ed è equiparabile alla restituzione della refurtiva operata dalla polizia» (Cass. Pen., Sez. V, n. 9430 del 17/05/1996 Rv. 205920, ric. Gennari).
Si tratta di pronunce segnalate dai giudici di legittimità per l’attenzione verso la qualità, la natura e l’oggetto del distacco, inteso quale sottrazione persistente, ovvero quale permanente segno "meno" nel patrimonio, inteso come garanzia per la massa dei creditori titolati per la procedura concorsuale.
La Corte di Cassazione ha riconosciuto, dunque, decisiva per ritenere integrata la bancarotta per distrazione la qualità del distacco ed in particolare la concreta idoneità a porre in pericolo la garanzia patrimoniale per la massa dei creditori, al momento del fallimento. L’offesa rivelata da tale reato, infatti, non si riduce al mero impoverimento dell'asse patrimoniale dell'impresa, alla sottrazione di ricchezza, ma si identifica in una diminuzione della consistenza patrimoniale idonea a danneggiare le aspettative e le pretese dei creditori (Cass. Pen., Sez. V, Sentenza n. 16388 del 23/03/2011 Ud., dep. 26/04/2011, Rv. 250108). L’esposizione a pericolo (sufficiente per integrare il reato) resta distinta dal “danno" alla massa dei creditori (requisito non essenziale), che potrebbe mancare nonostante la sussistenza della prima, ad esempio per l’attività di recupero di assi patrimoniali posta in essere, dopo il fallimento, dal curatore, arrivando a neutralizzare le esposizioni passive. Ma ritenere sufficiente la constatazione in sé dell'atto distrattivo equivarrebbe ad aderire ad una ricostruzione della fattispecie in termini di "pericolo presunto" con sospetto di addebito di responsabilità oggettiva.
Molte evidenze sistematiche testimoniano che un distacco ingiustificato dal patrimonio della impresa o società può non integrare l'elemento oggettivo del reato fallimentare in esame, in difetto di un pericolo concreto per l’interesse dei creditori.
Si ponga mente ai principi affermati in tema di c.d. "bancarotta riparata", che non attengono alla punibilità, ma all’oggettività del delitto. E’ così esclusa la sussistenza di esso nel caso in cui la somma sottratta dalle casse sociali (a titolo di prelevamento dalla cassa regolarmente contabilizzato o di finanziamenti a terzi o a socio), riportata da relativa annotazione contabile, sia incontrovertibilmente riversata nella sua integralità, dai soci che l'avevano prelevata, nelle casse della società prima della dichiarazione di fallimento, con un atto patrimoniale di segno contrario, restitutorio o anche compensativo, capace di annullare integralmente la lesione al patrimonio; segno del fatto che a fronte di un reato di pericolo, la valutazione del pregiudizio ai creditori deve essere operata al momento della dichiarazione di fallimento e non a quello della storica commissione della condotta (Cass. Pen. Sez. V, n. 7212 del 26/01/2006, ric. Arcari, Rv. 233604; Cass. Pen., n. 3622 del 2007, ric. Morra, Rv. 236051; Cass. Pen., n. 39043 del 21/09/2007, Spitoni, Rv. 238212; Cass. Pen., n. 8402 del 03/02/2011, ric. Cannavale, Rv. 249721; Cass. Pen., n. 28514 del 23/04/2013, Grazioli Gauthier, Rv. 255576 ; Cass. Pen., n. 52077 del 04/11/2014, Lelli, Rv. 261347; Cass. Pen., n. 4790 del 20/10/2015, dep. 2016, ric. Budola, Rv. 266025), in linea con la valutazione di un pericolo "in concreto", che solo in quel momento assume dimensione effettiva, necessaria per consentire di verificare se la diminuzione della consistenza patrimoniale abbia comportato uno squilibrio tra attività e passività (Cass. Pen., Sez. V, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv. 261683).
Anche la giurisprudenza (Cass. Pen., Sez. V, n. 3612 del 06/11/2006, dep. 2007, ric. Tralicci, Rv. 236043) sul reato di bancarotta per distrazione di beni acquisiti in leasing, del resto, ritiene decisivo l'accertamento della concretezza del pericolo cagionato «e cioè sul se la distrazione di beni in leasing avesse determinato un effettivo nocumento nei confronti dei creditori, nocumento escluso quando ad esempio elevati sarebbero stati i debiti a carico della curatela per il mancato pagamento del canone di leasing da parte dell'imprenditore ( conformi Sez. 5, n. 30492 del 23/04/2003, ric. Lazzarini, Rv. 22770; Sez. 5, n. 9427 del 03/11/2011 (dep. 2012 ), Cannarozzo, Rv. 251996)».
Il passaggio da attributo distintivo della condotta a contenuto del dolo è logica conseguenza. Il pericolo, infatti, quale evento giuridico della bancarotta pre-fallimentare, è connotato dell’atto di depauperamento idoneo a creare un vulnus all’integrità della garanzia dei creditori in caso di apertura di procedura concorsuale (non dunque come singoli, ma come categoria); ciò riguarda anzitutto l'elemento oggettivo, ma finisce per «investire poi in modo omogeneo l'elemento soggettivo e che certamente deve poggiare su criteri "ex ante", in relazione alle caratteristiche complessive dell'atto stesso e della situazione finanziaria della società, laddove l'"anteriorità" di regola è tale relativamente al momento della azione tipica, senza però che sia esclusa dalla valutazione la permanenza o meno della stessa situazione, fino all'epoca che precede l'atto di apertura della procedura e senza, comunque, che possano acquisire rilevanza, nella prospettiva che qui interessa, fattori non imputabili come un tracollo economico».
Se, dunque, l'agente non deve avere consapevolezza dello stato d'insolvenza dell'impresa, per non essersi lo stesso ancora manifestato (Cass. Pen., Sez. V, n. 44933 del 26/09/2011, Pisani, Rv. 251214) e può non avere la rappresentazione della futura dichiarazione di fallimento, difettando l'attualità del dissesto e la prefigurazione storica che la sua condotta distrattiva cagionerà verosimilmente il dissesto, la natura di reato di pericolo della bancarotta distrattiva impone nell’agente la consapevolezza, in relazione alla concreta situazione della società, dell'incidenza dell'atto distrattivo sulle prospettive di soddisfacimento concorsuale dei creditori.
Anche comportamenti antecedenti alla fase della vita della azienda definita come “zona di rischio penale”, dunque, possono integrare il reato in esame, a condizione però che presentino caratteristiche obiettive (si pensi alla operazione fittizia, alla distruzione o alla dissipazione) che, di regola, non richiedono particolari e ulteriori accertamenti per provare la esposizione a pericolo del patrimonio e che risultino e permangano congruenti rispetto all'evento giuridico (esposizione a pericolo degli interessi della massa) addebitato all'agente. Per le residue tipologie di bancarotta, «ossia essenzialmente gli atti di spesa non orientati su obiettivi correlati all'oggetto della impresa e cronologicamente distaccati, in modo significativo, dall'epilogo della vita della stessa, il compito dell'interprete, volto sempre a dimostrare la idoneità lesiva di simili comportamenti rispetto agli interessi dei creditori della procedura concorsuale, si fa proporzionalmente più oneroso perché, pur senza mai cadere nella necessità di provare la previsione, da parte dell'imprenditore (o equiparato) del fallimento o del dissesto, deve tenere conto della eventuale presenza di tutti gli elementi sopra descritti, quali emergano dalle indagini o siano allegati in modo serio dall'indagato». L’azione dell'imprenditore deve essere oggetto di una valutazione dinamica, che ne verifichi l’effettiva offensività, al di fuori di logiche ricostruttive di progressione della offesa.
La Corte di Cassazione, infine, ha avvertito che l'esigenza di indagare l’imputabilità soggettiva del pericolo concreto per la massa dei creditori non risente del ruolo riferito alla dichiarazione di fallimento all'interno della fattispecie, permanendo anche ove le si riferisca il valore di condizione di punibilità (secondo il più recente approdo della Corte medesima), sebbene quest’ultima qualificazione sia sovente sostenuta proprio per negare rilevanza a tale indagine.
Conclusioni
In linea con la natura dei delitti di bancarotta quali reati di condotta e di pericolo, si è venuto consolidando un tradizionale l’orientamento giurisprudenziale per il quale la dichiarazione di fallimento è estranea al dolo e alla colpa per essi richiesta. Non farebbero dunque parte dell’elemento psicologico del reato né la consapevolezza dello stato d’insolvenza, né la sua manifestazione al momento della condotta illecita (Cass. Pen., Sez. V, 14 dicembre 2012, n. 3229/13, Rossetto, Rv. 253932; Cass. Pen., 8 febbraio 2012, n. 11633, Lombardi Stronati, Rv. 252307), né la rappresentazione (o anche la mera prevedibilità) del fallimento (Cass. Pen., Sez. V, 20 febbraio 2001, n. 17044, Martini, in Cass. pen., 2002, 3872 ss.).
Non manca, però, un orientamento maggiormente sensibile alle implicazioni del principio costituzionale di colpevolezza di cui all'art. 27, comma 1, Cost., che emerge specie con riferimento alle evenienze di significativa distanza temporale tra la tenuta della condotta, da un lato, e l’emersione della crisi e la dichiarazione di fallimento, dall’altro. Sembra inserirsi in questo filone la pronuncia oggetto di questo commento, che perviene ad individuare un requisito subiettivo d'imputazione per vero connotato in termini colposi, quale quello della prevedibilità. Anzitutto, valorizzando la necessaria natura concreta del pericolo che deve connotare le condotte ingiustificate e obiettivamente depauperative della garanzia dei creditori per integrare la bancarotta per distrazione, riconosciuta nell’idoneità a determinare il rischio di sottrarre risorse ad una possibile procedura concorsuale, ledendo l’interesse procedimentale della massa. In secondo luogo, esigendo un dolo generico avente ad oggetto la rappresentazione e la volizione della condotta come pericolosa rispetto alla lesione degli interessi creditori protetti dalla norma incriminatrice, identificati in quelli collegati alle prospettive di soddisfacimento in seno ad una possibile futura procedura concorsuale.
A ben vedere, nonostante le diverse rassicurazioni offerte nel corpo della pronuncia commentata, la necessità che l’agente si rappresenti la prevedibile influenza della condotta depauperativa rispetto agli interessi dei creditori nella futura procedura concorsuale finisce, inevitabilmente, per esigere, quantomeno, la prevedibilità (se non la storica previsione) al momento della condotta (e la persistenza sino alla dichiarazione di fallimento) del fallimento e dei suoi presupposti storici. Non sembrano esserne stati inconsapevole gli estensori della sentenza allorché hanno avvertito che non si potrebbe giungere a diverse conclusioni anche ove si muovesse dalla ricostruzione della dichiarazione di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità. Ed è evidente che con tale prospettazione la concretezza del pericolo associato alla condotta depauperativa assume intensità talmente sviluppata da restarne pressoché indistinguibile il confine con il danno.
Cassazione penale, Sez. V, sentenza 7 aprile 2017, n. 17819